DECIMO BOUQUET
SEROTONINA di Michel Houellebecq, La nave di teseo 2019, 332 pagine
Certi libri, come certi individui o certi avvenimenti, hanno la sfortuna di venire dopo, generando aspettative e confronti indebiti: Sottomissione era una possente visione appena distopica sulla decadenza dell’occidente, con conseguenti suggestioni di resa all’Islam; Serotonina è soprattutto un racconto individuale, intimista e talvolta così sorprendentemente romantico da corteggiare Liala. Se solo Michel Houellebecq non fosse un vivisezionatore di organi sessuali, ignorati dalle generazioni precedenti che ufficialmente amavano, come Farinata, dalla cintola in su. E mentre nel gennaio 2015 si blaterava di profezie rispetto al massacro di Charlie Hebdo e oggi si menzionano i gilets jaunes continuando a saldare Nostradamus con l’attualità, Florent-Claude Labrouste si sveglia e inizia un’altra storia, che pertiene, con inusuale tenerezza, a Estensione del dominio della lotta o a La carta e il territorio.
Si sveglia in un ambiente da pittura fiamminga, tra il cuscino e la caffettiera, quando si è ancora inadatti al giorno, e ingolla la sua pillola antidepressiva. Ha 46 anni, una precisa consapevolezza del momento esatto in cui la giovinezza è finita, non dispone di ragioni né per vivere né per morire, si licenzia dal ministero dell’Agricoltura e inscena la propria sparizione. Diversamente da molti altri personaggi dello scrittore, ha avuto una diretta esperienza dell’amore, ossia dell’unica felicità possibile, però sa che Dio è uno sceneggiatore mediocre, tale da convertirla bruscamente nel suo contrario, riempiendo di assenze gli anni restanti. Quelli precedenti sono invece ripercorsi secondo un rituale di congedo in forma di nostalgiche epifanie, prima fra tutte la ragazza castana che incede ignara come un refolo botticelliano all’interno di un video di Bill Viola: sfiorata per caso e mai conosciuta, emblema di ogni possibilità di coppia e quindi antidoto ad ogni solitudine. E poi Kate, amata e perduta alla stazione, e Camille, stretta di corsa tra le braccia, fino all’incontro con l’unico amico che impenna il racconto e lo fa immergere in un ambiguo incidente di violenta protesta contadina, con un progetto estremo di recupero, mancato come tutte le altre occasioni.
Decadente nei gusti e inadatto alla vita, l’io di Labrouste è una disamina sociosentimentale stretta intorno a tre espedienti narrativi: la disquisizione, con disinvolta competenza, sui più disparati argomenti ( Thomas Mann e Marcel Proust, Alphonse de Lamartine e Elvis Presley, Jean-Jacques Rousseau e Harrison Ford, Georges Bataille e Claude François, senza tralasciare le qualità dell’hummus e dell’humus, le sonorità di un concerto dei Deep Purple o le proprietà di un fucile Steyr Mannlicher); la minuziosa frequentazione della quotidianità ( le persecuzioni burocratiche, le birrerie, i villaggi vacanza, i programmi televisivi popolari, le mode delle epoche, le offerte dei grandi magazzini, gli orari dei treni, i formaggi e gli affettati della provincia); il ventaglio delle figure complementari ( i corpi spesso bolsi o troppo dipinti, i discorsi impoveriti, le mortificazioni quasi sempre definitive). Si genera così uno strabismo prospettico che da un lato allontana la visuale rendendo universali la riflessione e la denuncia, dall’altro accorcia le distanze attraverso l’immediata riconoscibilità dell’ambientazione e avvicina empaticamente il lettore ai fatti, sostenendo il tratteggio storico con l’esperienza comune del giorno per giorno. Fino a tentare di convincerci che magari l’Islam si allontana in favore della Cina, tanto l’occidente è spacciato comunque se per continuare ad esistere deve impasticcarsi fino all’obesità e all’impotenza.
Tuttavia l’assunto di fondo ha come forza motrice le differenti modalità di amare tra gli uomini e le donne. E se gli eroi e i mondi houellebecquiani sono sempre immediatamente riconoscibili come in tutti i grandi autori, l’incedere non solo risulta particolarmente dilatato ed erratico , ma si avvale di un frequente rimando ad avvenimenti appena accennati e poi subito posticipati. Un artificio che genera una sensazione di straniamento e di suspense, così che almeno fino ai tre quarti del romanzo si è presi anche dalla curiosità di dove andrà a parare, mentre torna avanti e indietro lungo le sue singolari topografie. Intanto si assaporano rabbie apodittiche, sconcerti irrimediabili, finezze psicologiche, considerazioni gelidamente esilaranti. Con il rimpianto per un diverso valore aggiunto complessivo, perché nel corso degli anni ci si era abituati bene. E forse un po’ anche lui, fresco e previdente sposo di una giovane cinese. Con l’occasione gli auguriamo il meglio, visto che questo nuovo titolo, a suo modo commovente quanto imperfetto, ci induce ad un abbraccio diverso dal passato, avendogli scoperto, sotto l’improbabilità fisica e il terrorismo mentale, un cuore che fa rima, come nelle canzonette.
TURBINE di Julia Zee, Fazi 2018,617 pagine
Unterleuten vuol dire tra la gente, ed è un villaggio immaginario del Brandeburgo a sessanta chilometri da Berlino; prima massacrato dall’attribuzione alla Repubblica democratica tedesca e poi dalla riunificazione delle due Germanie. Nel 2010 è una comunità semiautarchica trascurata dal tardo capitalismo, immobile in un presente parallelo dove il vento non soffia mai. Le casse comunali sono quasi vuote e perdere il lavoro significa rimanere disoccupati a vita. Ma gli scarsi tetti rossi, le strade fiancheggiate dai peri ricurvi, le linee diritte dei pini e degli orizzonti integri sembrano attirare alcuni berlinesi con sogni bucolici come vecchie cartoline. Si ricompone così una società di indigeni e di forestieri in precario equilibrio fra antichi rancori e forme di baratto , consistendo il modesto potere di ognuno nell’accumulare dei crediti relazionali da esigere alla bisogna. Finchè una politica centrale ridotta a mero intrattenimento decide di incentivare le energie rinnovabili, sovvenzionando una decina di turbine eoliche. Ed è subito corsa alle mappe del catasto, con due improvvise fazioni a fronteggiarsi in nome di due opposte cause comuni, ognuno spinto da motivi personali diversi.
Suddiviso in capitoli intitolati ai singoli personaggi, il libro dapprima sconcerta come le opere russe, inducendo il lettore a chiedersi: ”Ma questo chi era?”. E lo smarrimento iniziale non è tanto dovuto al numero dei protagonisti, quanto al fatto che ciascuno pensa di essere diverso da come gli altri lo vedono, sicchè i caratteri e gli eventi vanno via via sfaccettandosi secondo una sorta di thriller umano e legale, intendendo per thriller non tanto il genere specifico, quanto un disegno ad incastri di consumata abilità linguistica e compositiva: teso, eccitante, ricco di risvolti psicologici, di dialoghi e riflessioni esemplari, di sfumature poetiche e di competenze specifiche, nonché di macchinazioni dagli esiti imprevedibili.
L’ex proprietario terriero sa che le parti possono dirsi soddisfatte se una ha potuto parlare e l’altra non ha dovuto ascoltare; il comunista irriducibile comprende che una buona memoria non smette mai di verbalizzare l’ingiustizia, e chi si rifiuta di dimenticare rimarrà solo; l’affarista che odia il tempo libero e quello perso scopre che la ricchezza consente il lusso di ignorare anche i propri interessi; la ragazza che sussurra ai cavalli persegue ad oltranza l’imperativo di amare i nemici dei suoi avversari come se stessa, così come il verboso ornitologo avverte con sgomento che al mondo c’è tanta violenza perché essere violenti è sorprendentemente facile…
Pubblicato nel 2016 in Germania, Turbine è stato giustamente un importante caso letterario ed ha riscosso un grandissimo consenso anche per la notorietà dell’autrice ( ex giurista e figlia quarantaquattrenne di un direttore del Bundestag, con una decina di successi all’attivo , tradotti in tutto il mondo). Mentre in Italia è passato del tutto inosservato. Forse perché la nostra letteratura nobile è ancora legata a microcosmi da strapaese postbellico, oppure perché risulta sospetto essere arditamente attuali (sì Tav, no Tav) e nel contempo sofisticatamente classici in 617 fluidissime pagine (da cui, per gusto ed orecchio personali, avremmo espunto l’epilogo, chiudendo su uno dei finali più possenti degli ultimi anni). Eppure in questo romanzo c’è tutto: un’idea forte di morale quando quella collettiva si dissangua in rivoli di individualismo ludico o rabbioso; una rappresentazione acuta della politica occidentale; il recupero in chiave contemporanea di tutte le passioni in conflitto, tra la speranza e la rinuncia, la tenerezza e la ferocia; e poi la fecondità inventiva, il realismo, l’ironia, l’intrattenimento, la suspense, lo stile personalissimo, con tanti aforismi da trasferire nel proprio piccolo vangelo da viaggio.
ACANTI di Henry Matisse, 1953