DA RIVEDERE IN VACANZA
A TEMPO PIENO, di Laurent Cantet, Francia 2001, durata 134 minuti
Il lento, progressivo degrado morale, materiale e psichico di un uomo che, venendo licenziato , cerca di mantenere un’identità di ruolo di fronte a se stesso e alla propria famiglia, scivolando in una finzione peggiore della realtà .Inventatosi un prestigioso lavoro a Ginevra ,Vincent vive per le strade , nelle stazioni, nei bar; poi inizia a truffare gli amici e il padre. Infine, individuato da un ex galeotto, cerca di rientrare nella quotidianità, seppur tramite un lavoro illecito, e di riscattarsi restituendo i soldi agli amici meno abbienti. Ma la moglie lo scopre e qui , a differenza dell’episodio di cronaca cui il film è ispirato, che terminava in una carneficina, il finale sembra svolgersi con un colloquio di assunzione, in una società caldeggiata dal padre. C’è una frase chiave nel film: Vincent ama guidare , è la sola cosa che gli piace fare , al punto che è stato licenziato perchè quando viaggiava per lavoro, stava così bene in macchina da non voler scendere, non presentandosi così agli appuntamenti . Anche nella successiva finzione, il protagonista continua a rifugiarsi nell’abitacolo circoscritto dell’irrealtà pur di non “elaborare il lutto”. Prende tempo, anche sapendo che la catastrofe incombe. Lento, sottilmente angoscioso, straniante nel rapporto con la geografia esteriore di vetrocemento tanto come con quella interiore del soggetto, che è un caso socio caratteriale più che psichiatrico, il film è un buon film, che si occupa della realtà sociale, seppur attraverso un caso solo apparentemente individuale . Il disorientamento psicologico, in un Tempo come il nostro, è ben descritto ,anche se qualche taglio o qualche cortocircuito metaforico in più non avrebbero guastato.
IL MIRACOLO di Edoardo Winspeare, Italia 2002, durata 96 minuti
Taranto, giorni quasi nostri. Un bambino viene investito da una macchina, la guidatrice scende, lo guarda e non lo soccorre. Lui, durante la degenza, tocca un paziente clinicamente morto e questo resuscita. Si convince, pacatamente, di aver fatto un miracolo. Nel frattempo la ragazza, una “cattiva ragazza” illegittima, raggiunta dalla madre che l’ha abbandonata, va a trovarlo in ospedale e i due fanno amicizia. Un compagno di scuola del bambino, venuto a sapere del fatto in ospedale, gli chiede di imporre le mani al nonno malato di cancro ,e il nonno migliora. La madre intanto è tentata da un giornalista locale che vuole speculare televisivamente sui fatti. Inizialmente il padre si oppone, ma poi , oberato dai debiti, fissa l’intervista. Il nonno muore e il bambino capisce di non possedere alcun dono. La ragazza viene riabbandonata dalla madre, proprio nel momento in cui , per farle un regalo, ha svaligiato la cassa del bar dove lavora . Si chiude in casa , sfascia tutto e, mentre sta per bere della varechina, compare il bambino che è venuto a cercarla . La trascendenza può attendere, i veri miracoli avvengono sulla terra. Film molto lento , che si prende tutti i sui spazi e il suo tempo per narrare, arricchendo il racconto di tanti particolari psicologici e ambientali, in modo malinconicamente oggettivo . Ben girato e ben sceneggiato , dispone di una grazia neorealistica semplice e convincente, con personaggi anche fisicamente ben delineati. Intorno, una città di mare moderna e arcaica fa da sfondo alla vicenda e la connota meridionalisticamente. Sommesso , delicato e pensoso, con al centro una bella storia .
LE CONSEGUENZE DELL’AMORE di Paolo Sorrentino, Italia 2003, durata 100 minuti
“Noi lavoriamo in ogni momento a dare forma alla nostra vita, ma lo facciamo copiando, come un disegno, i tratti della persona che noi siamo, e non di quella che ci piacerebbe essere.” Questa frase di Proust potrebbe essere l’epigrafe di questo film tombale, costruito geometricamente intorno ad un personaggio straordinario altrettanto geometricamente concepito, in un contesto vuoto fatto di camere e di alberghi sospesi nel nulla, meccanicamente illuminati da luci architettonicamente predisposte e fotografate con il bisturi.
Titta di Girolamo è un ex di sè stesso: ex marito, ex padre , ex commercialista, ex fratello, ex uomo. Insonne, nevrastenico, metodicamente tossicomane, corriere della mafia, resiste alle vicende che lo tengono prigioniero aggiungendo per proprio conto altre maglie alla sua rete, e solo la sua rarefatta precisione, il suo artefatto distacco gli consentono di tirare avanti. Finchè, a scompigliare la frase di Proust e il suo cuore già abbigliato di nitido legno , interviene la possibilità di un sentimento imprudente , coscientemente accolto, fino all’eroico rovesciamento finale. Film notevole, di straordinaria suggestione scenica e abilità narrativa, che riesce in modo del tutto desueto ad avvincere lo spettatore immergendolo in un’atmosfera ipnotica, dove le notazioni psicologiche si fondono in maniera suggestiva con un plot a suo modo di azione , su un fondale amniotico di geometrie anonime , in cui un rumore, una parete, un corridoio, una porta che si apre generano attesa ,angoscia, mistero ma anche progressione verso l’imprevedibile epilogo. Indimenticabili il film, il personaggio e l’attore protagonista, con il regista e il direttore della fotografia. E’ nato Sorrentino.
AMERICAN GANGSTER di Ridley Scott, Usa 2007, durata 176 minuti
Un bentornato affettuoso ma non entusiastico al vecchio caro Ridley: a sett’antanni suonati dirige un film sulle organizzazioni malavitose che durante gli ultimi conati della guerra in Vietnam importano direttamente la droga nelle bare dei soldati. Trattandosi di un classico, si sa già quasi tutto. Ma, come ne I duellanti e ne Il gladiatore, il regista non ci parla tanto di organizzazioni del crimine, quanto di persone: di Frank, il malavitoso nero , il cercato, e di Richie, il poliziotto ebreo incorrotto, il cercatore. I due sono speculari: Denzel calmo, organizzato, lucido, ”regolarissimo” ,tutto casa chiesa moglie famiglia, con una sola parola: quella data. Russel impulsivo, cialtrone, donnaiolo, approssimativo ,ansioso, sregolato , con il culto dell’onestà , forse solo per potersi stimare.
L’originalità del film comporta che i due protagonisti agiscano partendo dai margini dello schermo per convergere progressivamente al centro , ognuno seguendo la propria vita , senza conoscersi. Fino al momento in cui, allo storico incontro Frazer -Cassius Clay, per un piccolo scarto amoroso dal suo quasi fanatico understatement ,Frank viene intercettato. Ma solo negli ultimi dieci minuti del film gli antagonisti diventeranno scopertamente tali e , inevitabilmente , destinati a piacersi, come tutti gli irregolari rispetto al proprio ambiente ,sì che in realtà lo spettatore , per evitare un gioco emotivo a somma zero, è dirottato sul vero “cattivo” del film, ossia la polizia corrotta. Sullo sfondo , la storia di un’impresa privata , di una guerra pubblica, di istituzioni traballanti, e di un salto della logica malavitosa, che scopre il mercato secondo una visione aziendale .Lo stesso cambiamento che il protagonista dovrà affrontare alla sua uscita dal carcere. Un discreto copione, con qualche illuminazione narrativa qua e là, un sapiente montaggio, una regia sperimentata che non rischia o non sa osare fino in fondo, due attori molto bravi e molto controllati .E un finale che non sa finire, ma meglio di quanto non accada oggi.
LE VITE DEGLI ALTRI ,di Florian Henckel von Donnersmarck, Germania 2006 , durata 137 minuti -Europe award e Oscar al miglior film straniero 2006
Capita raramente ai moderni o postmoderni di poter usare l’aggettivo” classico”, intendendo per tale un modello culturale di valore esemplare che ,attraverso un’attenta ricerca filologica, riscopre proporzioni e canoni celati nelle armonie antiche, grazie anche ad un equilibrato e maturo senso della storia. Se questa accezione, fra le tante, è ancor oggi condivisibile ,questo film, bello e sorprendente, la merita pienamente.
Concepito , sceneggiato e diretto come una grande sinfonia, che si prende tutti i suoi tempi per dispiegarsi organizzando le note in modo razionale, rispettando un proprio intimo equilibrio in tutte le sue parti, ma portandosi ad ogni ritorno della forma sonata sempre un poco più in là, il film non lascia nulla al caso. E organizza una storia minuziosa emozionante, quotidiana e aulica insieme, che si tiene dritta alla barra del proprio motivo conduttore e scorre impavida attraverso numerosi possibili epiloghi, arrestandosi alla fine sulla nota più tremula, ma con il maggiore potenziale di cortocircuitazione poetica. E quando tutto è stato portato a compimento ,come nei grandi classici appunto, cominciano paradossalmente le interpretazioni, perchè in tanta precisione si insinua il miracolo dell’ambiguità. Sicchè il film continua anche dopo e, accanto alle interpretazioni psicologiche, recupera parecchie suggestioni tipiche della cultura tedesca, dal tema dell’angelo- Benjamin , Klee, Wenders- allo stupore per un Momento Storico – la Germania dell’est – ancora quasi contemporaneo, eppure già infinitamente lontano.
BASTARDI SENZA GLORIA di Quentin Tarantino, Usa Germania 2009, durata 160 minuti
Per anni e anni ho pensato che i telegiornali si preoccupavano della sequenza delle notizie per supposta importanza, ma non di inanellarle in qualche modo l’una all’altra, secondo un minimo di eleganza. E la vita rappresentata scorreva così, bruscamente , fra gioie, banalità, tragedie tutte sullo stesso piano. Poi qualcuno ha cominciato a trovare dentro ogni notizia il pretesto per agganciarla alla seguente .La collana è diventata più armonica, ma il principio della contraffazione ha fatto capolino. E non a caso il legame tra i fatti è la principale preoccupazione di chi narra, sì che direi quasi che, esasperando il concetto, la qualità di una narrazione dipende in gran parte dalle sue cesure o dalle sue continuità. Qui Tarantino, che se ne intende di realtà come di cinema , schiva con abilità e grazia il problema, raccontandoci una storia che cambia la Storia, e il cui gran finale non a caso si svolge in un cinema, ambito che tutto puo’, come si vedrà spesso anche nei suoi film successivi. E sceglie , all’interno del fluire della trama, la cesura secca in 5 capitoli, che meglio si concentrano sulla narrazione, non preoccupandosi della contraffatta eleganza delle giunzioni ,bensì della ingegnosità del meccanismo, facendo tornare con orologesca precisione i conti, proprio mentre sembra che l’ebbrezza da racconto lo attanagli e lo disperda. Inutile dire che si tratta di un film da vedere per la sua originalità, per quell’essere sempre sul filo del rasoio senza mai diventare parodia, per la continua suspence sottesa ad ogni dipanare, sì che il tanto decantato pulp non è per mozzare il fiato, bensì per riemergere da ogni lunga attesa sott’acqua come sotto il tavolo, contrappunto a quanto vi succede sopra, sì che lo schermo è spesso tagliato in due. Anche se non sa rinunciare a qualche indugio narrativo di troppo. In funzione della propria sensibilità e cultura poi, ognuno troverà dei riferimenti , delle citazioni, degli echi a proprio uso e consumo, capendo comunque che il pulp più pulp è nella verità e non nella finzione . Resta il fatto che il mestiere c’è, la passione pure, la tecnica anche. E sostengono bene l’originalità dell’ispirazione . Non un capolavoro perfetto, ma un grande saggio di cinema, interessante e coinvolgente, con un attore – Christoph Waltz- che vale da solo il prezzo di un intrattenimento audace e riuscito, l’unico a mia memoria sull’argomento specifico , a parte Chaplin e Mein Fuhrer