DA RIVEDERE IN VACANZA
I COMPARI di ROBERT ALTMAN Usa, 1971, Durata 121 minuti
Struggente come sanno esserlo solo i classici sui classici (intendendo qui la rivisitazione del western in maniera originale, sia dal punto di vista della sceneggiatura che da quelli della regia e della fotografia) il film è ambientato in un posto in fondo al mondo, su qualche montagna americana.
Siamo a fine ottocento e le grandi ditte minerarie espropriano i possedimenti dei piccoli proprietari per sfruttarne i giacimenti. Beatty, uomo impulsivo, ignorante ma non privo di fascino, è l’affarista del paese. In società con lui entra Julie Christie, prostituta disicantata, brusca e intelligente, che mette su un bordello “moderno” (dove gli uomini si lavano). In ogni tipologia di affare la donna si opporrà a Beatty, tutte le volte a ragione. Essendone innamorato e dovendola pagare e condividere con altri clienti, lui si intestardisce nell’opporsi all’offerta di una grande compagnia, per riscattarsi così dall’umiliazione e dimostrarle di saper fare l’affare della sua vita. Andrà come la donna aveva previsto: la compagnia assolda dei banditi per ucciderlo e impossessarsi così dei suoi terreni. Moriranno tutti, tranne lei che, consapevole come tutte le sagge e inascoltate Cassandre, contemplerà nell’annebbiamento dell’oppio la perdita del suo sogno di riscatto: gestire una pensione per bene.
Il film gronda freddo ed è sostanzialmente concepito in due cromie: fuori l’inverno, bianco e bruno, dipinto da Bruegel; negli interni, il rosso e l’arancio del calore dei corpi, dell’alcool, del riparo, della sicurezza. Straziante e a tratti comica la storia d’amore implicita, belli i personaggi protagonisti come quelli secondari, affascinante l’ambiguità del titolo (sono compari sia i portatori di morte che i due soci che vorrebbero vivere).
Indimenticabile la neve che sembra disegnata e continua a cadere, indifferente ai fatti degli uomini. Eroica la morte di lui, che, con un atto virile, di paura e di coraggio insieme, si riscatta con l’unico mezzo di cui dispone: la forza. Epico infine, giocato sul silenzioso e accecante ottundimento del bianco, il suo solitario trascinarsi, il non volersi arrendere fino in fondo. Perchè l’ignoto e la fine non possono essere concepibili fino all’ultimo momento. Umano, crudo, affettuoso e perfetto, un’idea diversa e ghiacciata della mitica terra di frontiera. Musiche indimenticabili di Leonard Cohen.
IN BRUGES di MARTIN MC DONAGH, GRAN BRETAGNA BELGIO 2008, Durata 101 minuti
Due killer a riposo forzato dopo un colpo andato male vengono catapultati, con stupore e disappunto da provinciali, in una città semituristica. Devono ingannare l’attesa aspettando la chiamata di un fantomatico capo, intuendo altresì che, comunque vada, di nuovo qualcuno morirà. La città, che in genere è lo sfondo di un’azione, si compenetra con i caratteri e le domande latenti dei due, così da riassumere (nel suo incanto come nella sua indifferenza), due modelli di vita. Uno si lascia attrarre dalle “pietre d’arte” e dalle atmosfere visitando monumenti, mentre l’altro, più giovane ed irruento, trova nell’ostilità al luogo la spinta per fare degli incontri con le donne.
Poi la città stessa, strinata da refoli di neve e da figure boschiane, si incaricherà di porre fine al racconto. Che è incongruo e affascinante e poetico al tempo stesso: non solo perché rovescia alcuni stereotipi consolidati dei buddy movies, ma perché riesce a dar loro un significato esistenziale attraverso il senso di sperdimento che sempre ci assale in una città mai vista prima, rendendoci attratti dall’isolamento come dall’esplorazione, metafora del nostro stare al mondo. Da introversi o estroversi, vittime, assassini, o altre categorie di appartenenza. Finale indimenticabile, che cortocircuita fulmineo sia l’intimismo esistenziale del film (del tutto insolito per un thriller) che la soluzione visiva per rappresentarlo.
WALL –E di ANDREW STANTON, USA 2008, durata 97 minuti
Su una Terra desertificata dai rifiuti, e abbandonata dagli uomini per galassie artificiali, il rugginoso robottino Wall-E lavora a compattare rottami con la serenità di un francescano e la costanza di un certosino: solo e in piena letizia. Gli fa compagnia una vivace cavalletta, unica superstite del mondo animato. Ma la suggestività di alcuni tramonti (nostalgico bagliore di un’altra epoca su rovine desolate e polverose) e l’ingenuo spezzone televisivo di Hallo Dolly che lo accoglie ogni sera nel suo rifugio casalingo, gli instillano il senso della propria solitudine. E un anelito del cuore verso qualcosa cui non sa dare un nome. Il nome, Eve, ben presto si incarna in una candida e modernissima sentinella robotica, inviata dalla galassia per…
Si prosegue spostandosi in altri mondi, dove umani ormai obesi hanno perso l’uso degli arti, e si muovono mediante macchine. A partire da questo momento, il film trascolora dal sentimento alla sociologia, e si ritrova, pur con parecchie invenzioni intelligenti, a spartire i destini di molti altri cartoni animati – benchè nobilitato dai continui riferimenti a Odissea nello spazio e reso più originale e pensoso da acute riflessioni sul mezzo cinematografico. Ma i primi venti minuti entrano di diritto nella storia del grande cinema, con un candore poetico e una semplicità espressiva che superano lo stesso E.T., pietra miliare del genere. La tecnologia narrata e interpretata, così come quella utilizzata per animare la storia, si aggiudicano uno spazio sensibile nella nostra memoria affettiva. Un dolcissimo Gesù bambino meccanico da collocare sulla paglia del vostro presepe.
QUESTIONE DI CUOREdi FRANCESCA ARCHIBUGI, Italia 2009, durata 104 minuti
La domanda é: con l’articolo o senza? Perché il romanzo La questione di cuore da cui la regista ha sceneggiato il film lo riporta, mentre la pellicola no. Eppure la differenza è sostanziale: nel primo caso la protagonista è la morte, che ci accorcia la vita, ma a guardarla, seppur di striscio, paradossalmente la può migliorare, rendendoci più attenti e facendoci capire più cose. Nel secondo caso una frequentazione in corsia per infarto è l’occasione, ma niente di più, perchè scatti un’amicizia fra uomini: basata, in fondo, sull’amore depurato dal sesso, e quindi meno possessivo, più generoso, più disponibile al bene dell’altro. E perché questa amicizia abbia una sua dinamica, bisogna inscenare due caratteri diversissimi, due classi sociali antitetiche, due complementarità adatte al reciproco sostegno e fiducia.
Di questo ci vuole parlare la regista, e sa farlo benissimo, rinunciando alla trama (l’epilogo è dato fin da subito) a favore degli episodi, dei personaggi di contorno e degli ambienti.
Ma questi aspetti aggiuntivi, che in un autore meno sorvegliato avrebbero intriso la trama di metafore e simbolismi, l’Archibugi sa gestirli sapientemente, anche in quanto donna, concentrandosi su dialoghi perfetti, episodi illuminanti, piccoli collassi di significato che emergono dalle parole come dai silenzi. E questo grazie anche a due eccellenti attori, così autorevoli da farci dimenticare la loro fisicità televisiva o la loro aristocratica bellezza per un modo sfaccettato ma omogeneo e coerente di sceneggiare e di dirigere, che fa ben sperare in una nuova e ormai abbastanza ricca filmografia italiana. Finalmente matura e capace di travalicare i generi che hanno fatto grande il nostro cinema, per trovare altre vie (forse più dimesse, ma altrettanto valide) su un particolare equilibrio tra ragione e sentimento.
E questo perchè anche gli spettatori più duri si ritroveranno alla fine col ciglio umido, con finte raucedini, e con migliori propositi.
MASTER & COMMANDER di PETER WEIR, USA 2003, 140 M
Le guerre napoleoniche, un’Europa lontana, l’oceano delle Galapagos e la rappresentazione dei due nemici, Francia e Inghilterra, sotto forma di due navi che si inseguono, si scontrano, si ingannano per continuare ad inseguirsi e a scontrarsi.
Tutto l’apparato di mare e di vele, di cannoni e di ciurma, d’onore e di divise, di disciplina e di insubordinazione, di coraggio e di superstizioni che gli uomini si inventano per dare dignità alla guerra, giustificare il sacrificio della vita, eroicizzare il quotidiano fino allo straordinario, come in un racconto epico dove tutto è meraviglioso ed ognuno è insostituibile.
Su tutto la figura del leader, il capitano Aubrey, lontano e vicino, rigido ma flessibile, astuto e leale, umano e fortunato. A fargli da contrappunto riflessivo il medico di bordo, naturalista pre darwiniano, portato alla contemplazione e all’indagine, quasi a significare le due nature dell’uomo, entrambe partecipi dell’azione quando gli eventi o le ossessioni melvilliane lo esigono.
E, disseminati lungo tutto il percorso, piccoli e grandi episodi, ciascuno tessera perfetta nell’armonia della coralità maschile, declinata lungo tutte le età dell’uomo. Film straordinario, realistico e simbolico, tradizionale e originale, ben sceneggiato, diretto e fotografato. Interpretato da un Russel Crowe che, nella sua umana infallibilità e nella sua fisicità quasi goffa, dà lezioni di leadership vera, ponendosi – con sobrietà di testa e di cuore – a capo di un folto manipolo di memorabili capitani coraggiosi.
A CASA PER LE VACANZE di JODIE FOSTER, Usa 1995, durata 103 minuti
Ovvero, quando le riunioni famigliari, quasi un percorso obbligato nell’esplorazione psicologica dei personaggi, consentono di entrare nel lessico, nelle storie taciute, nelle complicità e nelle disperazioni di un gruppo parentale riunito per il giorno del Ringraziamento.
Occasione di coagulo dei grumi esistenziali dei singoli individui, dove il taciuto e l’esplicito sono in realtà modi diversi di chiedere attenzione e amore. E al motto di “non dobbiamo piacerci, siamo una famiglia” succedono tanti fatti, piccoli e grandi, si alternano momenti differenti. Momenti qualsiasi eppure tutti significanti nella filmografia per terzi di cui ognuno è interprete.
Così si mescolano affetto e crudeltà, desideri di offesa e di fuga, sentimenti di amore e di colpa, volontà di dedizione e di egoismo, fino alla separazione in vista della temuta ma anche agognata prossima riunione di Natale. Perchè in qualche modo arriva per tutti l’attimo di piccola e privata catarsi che rende la vita comunque degna di essere vissuta, giustificando e assolvendo il groviglio di contrastanti emozioni che incombono al cospetto del tacchino ripieno.
Aggraziato e crudele, bilanciato tra una materialità oltraggiosa e singolare e una spiritualità dolente, ben orchestrato nei caratteri e nelle scene nonché dotato di una sua piccola suspence narrativa, il film conferma l’intelligenza e l’abilità di Jodie Foster: donna singolarmente affascinante, brava attrice e anche regista sensibile. Ottimo il cast degli attori,con particolare riferimento a Robert Downey jr, nostalgica la colonna sonora, da Janis Joplin a Nat King Cole.