COSMOPOLIS
Tanto per circostanziare, ci si reca a vedere questo film come ad un incontro con due amori, di quelli che durano e non si dimenticano: il regista David Cronenberg (La mosca, Crash…) e, ancor più amato, lo scrittore Don DeLillo (non tutta la produzione, ma almeno Underworld e – soprattutto – Rumore bianco, a sua volta chiosato magistralmente da David Foster Wallace in Tennis, TV, Trigonometria, Tornado).
Stabilite le coordinate ed esibite le credenziali, dimentichiamoci la trepidazione e concentriamoci sul film, che è l’incontro fra i due autori, con noi a fare da spettatori, mentre un interrogativo urge sullo sfondo: che cosa avrà sottolineato Cronenberg dell’omonimo libro di DeLillo in cui lo spazio e il tempo si annullano a vicenda in una sola giornata, per riassumersi nella rarefazione di due occhi che guardano dal carapace di una limousine?
Uno sguardo che è anche l’ultimo segno umano in una sorta di disgregazione dell’individualità, ulteriormente disumanizzata dalla virtualità della finanza: materia che trascorre come una sorta di egemonia sul mondo reale, mentre il rapporto uomo-macchina trascolora nella smaterializzazione dei pixel. Quanto rimane da tutto questo è in realtà il riaffiorare della brutale fisicità primigenia, come unico elemento ancora in grado di filtrare sotto la simbologia e la tecnologia.
La risposta al nostro interrogativi è presto data: Cronenberg, con una curiosa inversione del mezzo cinematografico, annulla lo sguardo postmoderno dell’autore e lo sostituisce con una sorta di verbosità teatrale quasi insopportabile. Il palcoscenico è fornito dalle viscere di una mostruosa limousine bianca superaccessoriata e blindatissima, sorta di Moby Dick svuotata del mito dell’irraggiungibilità (non perché unica, ma posseduta da pochi, a sottolineare la metafora del potere oligarchico).
A bordo c’è la respingente avvenenza dell’ex vampiro Robert Pattinson, che interpreta un ventottenne tycoon della finanza. Nel suo algido delirio di superiorità, il giovanotto ha deciso di regolarizzare il taglio dei già perfettissimi capelli e, per compiere quell’unico atto che lo accomuna agli altri, sfida il lunghissimo attraversamento di una New York impervia e minacciata da turbolenze , andando così incontro alla sua fine.
Fuori, intorno ad una automobile fittiziamente mossa su rotaie (quasi a sottrarre ulteriore realtà al tutto) insurrezioni di protestatari, armati di topi morti come di torte, e qualche assassino sparso qua e là. Dentro, una lunghissima sequenza di dialoghi, smozzicati o fluviali, fra il proprietario onnipotente in cerca di senso e la moglie, le amanti, i subalterni, gli pseudoamici. Sembra di stare in quegli infiniti pomeriggi adolescenziali, dove la noia faceva concentrare sulle futilità più impensabili e dire le fesserie più impossibili, a dare un significato alla giornata. Intanto il regista fonda da un lato il mito di una classe arrogante che non si sa di che mestiere disponga, se non quello di fiutare il futuro dall’interno di un sempiterno presente; dall’altro, accenna alla massa anonima di tutti gli altri qualunque, asserviti e sconfitti a priori.
Si entra in un territorio improbabile e quasi fantascientifico, con tutti i luoghi comuni e le iperboli dell’immaginario collettivo al posto giusto, e tutti i dialoghi fuori posto. Intanto lo yuan precipita e il miliardario non è più tale; ma, essendo un narcisista patologico sia nell’errore come nel futuro sacrificio di sé, non se ne preoccupa. Esaurita la scorta di figurine personali, lo ritroviamo a tu per tu con il suo passato e futuro prossimo, entrambi incarnati dal barbiere che l’ha visto bambino e da un ex dipendente, che sposta la lotta di classe della prima parte verso il confronto-conflitto individuale della seconda.
Si trascorre così dal genere psicosociologico all’esistenzial-dostevskijano, con un minimo comun denominatore di parole talmente “torrentizio” da risultare poco seguibile, tanto da non distinguere Sant’Agostino, Nietzsche, la bulimia di cibo e di sesso dall’irregolare allocazione della prostata – prostata cui è affidato, di fatto, il senso dell’intero apologo. Naturalmente l’automobile – trasformata poi in astronave e infine in bara – sparisce, sostituita da un appartamento così buio e squallido da sfidare il minimalismo fangoso del Cormac McCarthy più depresso.
L’ambizione, l’ammirazione, l’amore della sperimentazione giocano talvolta brutti scherzi: anche ad un regista duttile come Cronenberg, in grado di transitare con efficacia dal tema favorito della trasformazione dell’uomo in bestia al dialogo divulgativo della coppia Freud Jung, passando per la violenza intimista di A History of Violence a quella muscolare della mafia russa ne La promessa dell’assassino. Manca qui la consueta e singolare capacità di rielaborazione, che in genere gli consente di esprimere un personale valore aggiunto ad onorare quello che è il concetto di cinema, anche inteso come spettacolo.
Qui la prosa di DeLillo, capace di sostenere qualsiasi forma immaginativa a supporto di un’interpretazione sia dell’America come dell’attuale condizione umana, deve averlo sopraffatto fino a tradirlo. E non crediamo si possa dire che non si è capito un film che appiattisce ogni profondità della parola in apodittici cartigli da Baci Perugina, tentando inutilmente di far quadrare i conti attraverso una messa in scena claustrofobica che tuttavia non è in grado di restituire l’interesse del libro nè di sostanziare un intrattenimento alto.
Gli attori superano la prova, ma il copione e la regia no. E poiché non vogliamo che le passioni non corrisposte rendano vendicativi, defalchiamo di un ombrello la noia, la delusione e l’irritazione. Duramente provati, ci asterremo dall’andare a vedere la trasposizione di un altro libro amato (Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer) in contemporanea uscita sugli schermi per la regia di Stephen Daldry.
COSMOPOLIS di David Cronemberg, Canada Francia 2012 , durata 150 minuti