CARNAGE
Nel 1966 usciva sugli schermi Chi ha paura di Virginia Woolf, spaccato sulle liti apocalittiche di una coppia irrorata dall’alcool, in presenza di un’altra coppia di ospiti occasionali. Allora il testo teatrale che lo ispirava era una commedia di Edward Albee, adattata per lo schermo dal regista esordiente Mike Nichols. Cinque Oscar, e il vero merito di aver liberato cinematograficamente la crudezza violenta delle parole, in un’epoca in cui non si usava dire pubblicamente quel che si diceva in privato.
Quarantacinque anni dopo, Polanski riadotta e riadatta lo stesso schema: due coppie a confronto nel chiuso di un appartamento, sulla scorta della medesima matrice teatrale. Da un testo di Jasmine Reza, autrice, tra le altre opere, anche del magnifico romanzo Una desolazione (Bompiani, 1999). Soltanto che oggi non esistono più le censure e le autocensure di una volta, e i “cattivi esempi”, anche istituzionali, sono sotto gli occhi di tutti (per non parlare dell’esperienza di una qualsiasi riunione di condominio, da cui si esce convinti che la propaganda pacifista sia una pietosa favola per monache di clausura).
Salutato al recente festival di Venezia come l’unico possibile Leone d’oro in grado di mettere d’accordo sia la critica che il pubblico, il film si è poi visto soffiare il premio dal Faust di Sokurov, e compare adesso nelle sale tra cori di osanna giornalistici. In effetti la scenografia, la conduzione e l’interpetazione degli attori sono apparentemente ineccepibili. Anche il gioco al massacro fra i quattro protagonisti assume connotazioni più attuali. La pellicola si dipana e si riavvolge intorno alla retorica del civilmente corretto, sotto la quale continuano a covare belluine pulsioni ancestrali, esacerbate dalle moderne professioni dei protagonisti, che solo apparentemente si scatenano intorno al motivo del contendere ufficiale: il figlio undicenne degli uni ha sfranto con un colpo di bastone i denti del figlio degli altri.
Dalle iniziali cortesie per gli ospiti (oscillanti fra la volontà di mostrarsi modernamente superiori e i digrignamenti in difesa dei pargoli) si passa rapidamente alle reciproche insofferenze ed accuse, sino a sfociare nelle rispettive recriminazioni matrimoniali, mentre gli antagonisti di volta in volta si allineano e si disallineano gli uni agli altri. E così ora prevale la complicità di coppia e ora quella di genere, con un accento sulla solidarietà maschile.
Per l’occasione, sia l’autrice della sceneggiatura – la stessa Reza – sia il regista co-sceneggiatore usano tutte le strategie belliche utili a far emergere gli istinti di sempre, abilmente iniettate all’interno di caratteri emblematici perché intrisi nelle nevrosi, nelle ideologie di superficie e nelle maleducazioni della contemporaneità, tra fragilità ed arroganza.
Si sorride a tratti, e si segue con un certo senso di imbarazzo da buco della serratura, condito con qualche accenno di nausea – provocato dal vomito reale che è un po’ il leit motiv del film; e che, si sa, è di quelle manifestazioni fisiologiche che più inducono negli astanti una sorta di sindrome imitativa.
Se si prendesse per buona questa forma di partecipazione allora si potrebbe dire che lo spettacolo è riuscito. Tuttavia, ad una analisi appena più meditata, i punti deboli non sono pochi: intanto perché il teatro ha bisogno di adottare un tono semplificato e sopra le righe che gli consenta di farsi udire e di colpire, in assenza di filtri e di effetti speciali. Mentre la finzione cinematografica – almeno quando vuole inscenare la realtà- ha bisogno di una maggior naturalezza e fluidità. E lo sforzo del passaggio da un mezzo espressivo all’altro si percepisce vistosamente. Poi perché, di conseguenza, la dinamica degli eventi che costringe i protagonisti a restare nella stessa condizione claustrofobica è, drammaturgicamente parlando, un po’ d’accatto.
A seguire, gli stessi caratteri risultano schematici e poco convincenti, in quanto proni all’assunto dimostrativo della pellicola. E anche lo sviluppo dei dialoghi (che dovrebbe essere il punto forte di un film di parole) qua e là traballa, tra scatti e forzature, mentre non viene mai detto nulla di memorabile, nonostante l’intenzione paradigmatica. Gli spunti e i contrappunti ironici poi sono abbastanza scontati (l’ambigua torta che rinviene, il tormentone del telefonino) così come alcune gag, prelevate di peso da un arsenale di déjà vu (la petulante mamma lontana, il cellulare annegato nel vaso dei fiori…). Per tralasciare il finale che, tra criceti e bambini, chiude scolasticamente in forma di apologo.
Rimane uno sfoggio breve di grande professionismo tradizionale, che non rischia in nessuna direzione e non dice niente di nuovo o di sorprendente: un film simile a un monile prezioso che sembra bello, ma che, per una ragione o per l’altra, poi non viene mai indossato, e finisce per giacere inutile nel buio di qualche cassetto.
CARNAGE di Roman Polanski, Polonia Francia 2011, durata 79 minuti