Film

BRIGHT STAR

Nel 1996 l’ottima regista di Lezioni di piano era già inciampata nella letteratura inglese, mettendo in scena Ritratto di signora, dell’americano poi naturalizzato inglese Henry James. Il quale a sua volta aveva fornito con Turn of the screw e Washington square spunti memorabili per il cinema. Mentre per Ritratto di Signora, a partire dalla scelta degli attori, Jane Campion non era riuscita a rendere la sconfitta della protagonista Isabel, donna cosciente delle proprie qualità e con una forma di orgoglio femminista ante litteram, che viene punito da una scelta d’amore sbagliata.

Da quella data, ci sembra, lo schermo ha incominciato ad essere invaso da film romantici inglesi, ambientati a cavallo fra ‘700 e ‘800, con la inconsapevole complicità della filmaker: Emma, Orgoglio e pregiudizio, Ragione e sentimento, Becoming Jane ecc. Tutti diversi sotto il profilo artistico ma tutti caratterizzati almeno da scenografie e costumi appaganti quando non mirabili, dialoghi di una certa verve, amori inconfessati covati a lungo o contrastati, che fornivano sia complicità sistoliche che delucidazioni sui costumi sociali dell’epoca.

A 14 anni di distanza, forte della galassia che ha contribuito forse a delineare, la regista australiana ci riprova, mettendo in cantiere un altro tema analogo, tratto da una più modesta biografia di Andrew Motion, e quindi senza più l’incombere di un nome così schiacciante come quello di James.

Ma il risultato è, anche rispetto a Ritratto di signora, infinitamente più deludente. Sia perchè la vita di John Keats, il poeta romantico in questione, è stata così breve da essere caratterizzata da pochissimi avvenimenti. Sia perchè la Campion restringe e costringe la sua attenzione al di lui rapporto d’amore con Fanny Brawne, mettendosi come sempre dal punto di vista di lei (che è la meno significante dei due). E non lo fa utilizzando le memorabili e ardite lettere che il poeta ci ha lasciato – e che chiunque oggi sbaverebbe per ricevere, al posto degli economici, sbrigativi e serialissimi TVB. Bensì le poesie ispirate da lei a lui, dopo la prima pubblicazione, senza successo, del poema Endimione. Sottintendendo in un certo modo che l’amore non è solo fonte di poesia, ma è la poesia stessa.

Ma la poesia, poveretta, non è cinegenica, e non si presta a essere spezzettata e biascicata per sostituire dialoghi altrimenti insignificanti, svolti in un’ambientazione sommaria in particolar modo nei costumi, che sono quanto di più brutto si sia visto sullo schermo negli ultimi anni. E con un’assenza sconcertante di movimento come di sorprese psicologiche, essendo i caratteri di entrambi i protagonisti abbastanza piatti, nonché immersi in un’atmosfera e una società non tanto spregiudicate, quanto totalmente atemporali, soprattutto dal punto di vista della rigidità dei costumi. Unica eccezione, il poeta Brown, compagno di penna di John, che lo abbandonerà prima della sua morte romana, perchè ha messo incinta una povera cameriera analfabeta. Che è la vera storia, seppur non romantica, del film.

Per il resto molto tossire con relativo sangue, molto agucchiare più che ricamare, tra un’attesa d’amore e l’altra, molto comparire e scomparire tra il ti vedo e non ti vedo di una carnalità repressa o sublimata. Un po’ di incrociarsi di mani e qualche baciuzzo a fior di pelo. Di lui, Ben Whishaw. Che né come attore né come personaggio ha il minimo charme o “presenza” scenica, mentre in genere i consunti dalla tisi sullo schermo vengono benissimo e sono anche insaziabili. Lei invece (Abbie Cornish) è molto florida, ribelle a sproposito, innamorata quanto basta, e con l’impossibilità di sposarlo per mancanza di quattrini. Di entrambi. E qui un tratto incomprensibile per l’epoca, perchè sembra che non importi a nessuno.

Nel contempo, bimbi chaperon come comparse, mamme imprevedibili e più illuminate di quelle di oggi, e paesaggi. Tanti paesaggi, anche fuori luogo. Perché tra un’insignificanza ed un’altra si alternano visioni sulla campagna inglese di fronte e di profilo, d’inverno come d’estate, di mattino come di sera, nonché su particolarissmi giardini inglesi, ma così folti di fiori fitti e artisticamente spettinati, come non è dato in natura. E così lontani da quanto dipinge il contemporaneo e romanticissimo Constable, da costituire un anacronismo, essendo che l’ispirazione visiva qui viene dritta dagli impressionisti. Solo delle cartoline leccatissime, dunque, alle quali tutto il film si aggrappa disperatamente in mancanza d’altro.

Poi, finalmente, arriva la notizia della fine. E fra pianti e lacrime si va di titoli di coda, e la voce narrante continua a recitare poesie dallo schermo buio… Due ore sorprendentemente noiosissime, ma non di una noia estenuata o raffinata, bensì quasi greve, alla Califano. E pensare che amiamo la poesia, apprezziamo Keats, ricamiamo appassionatamente. Dunque ci saremmo anche accontentati di poco. Invece abbiamo dovuto consolarci riprendendo in mano il libretto di Penelope Fitzgerald (scritto ad 80 anni), sull’amore fra il giovane poeta romantico Novalis e la giovane Sophie: Il fiore azzurro, un capolavoro.

Comunque , a chi volesse sapere a tutti i costi cosa è successo in seguito, diciamo che Keats ha cominciato ad essere pienamente apprezzato parecchi anni dopo la morte, in particolare grazie ad Oscar Wilde. E che, sul Times dell’8 dicembre 1865, compariva il necrologio di una certa Frances Lindon, di 65 anni, moglie di Luis. Sì, proprio lei, la Fanny del film. Ci si consola di quasi tutto, in particolare dei grandi amori mancati. Un po’ meno dei film che aprioristicamente ci lusingano, a torto.

BRIGHT STAR di Jane Campion, gran Bretagna Australia, Francia 2009, durata 118 minuti

Previous post

IL SEGRETO DEI SUOI OCCHI

Next post

IL TEMPO CHE CI RIMANE

Marinella Doriguzzi Bozzo

Marinella Doriguzzi Bozzo