ARGO
Iran: nel 1953, dopo la deposizione di Mossadeq, la dinastia Pahalavi viene reinsediata al potere con l’aiuto americano, mentre l’Ayatollah Khomeyni è esiliato dal paese (1964); nel corso del 1978 la ribellione contro lo Scià raggiunge il suo culmine,e Reza Pahalavi, ormai malato di cancro, trova un avversatissimo rifugio proprio negli States; intanto la nuova Repubblica islamica si radicalizza intorno a due poli: il potere religioso di ispirazione khomeyniana e le istituzioni statali. Nel 1979 un gruppo di studenti ribelli prende in ostaggio una sessantina di addetti presso l’odiata ambasciata Usa di Teheran, mentre sei trovano fortunosamente rifugio presso quella canadese, all’insaputa del regime. Argo è la storia vera della loro liberazione, grazie all’opera contrastata e pressoché solitaria di uno specialista della Cia.
Il film parte lentamente illustrando i prodromi storici attraverso dei bozzetti disegnati e poi li fa confluire nello script e nelle illustrazioni di un simulato copione cinematografico di infimo livello, mentre la macchina da presa mantiene la stessa impostazione frontale nel descrivere le diverse dislocazioni del plot, creando un continuo contrappunto tra la preparazione della missione e i contemporanei eventi iraniani, fino a sfociare linearmente nell’operazione di liberazione vera e propria.
Potremmo essere dalle parti del solito film di azione, tra la spy story e il thriller, senonché i dati del tema sono noti e l’interesse non è imperniato né sul dubbio del lieto fine né sulle modalità per conseguirlo, bensì sul progressivo incalzare ansiogeno della sfida contro il tempo e contro il caso, nonché sulla trovata del film all’interno del film. Infatti la meno pessima delle idee tra quelle adombrate (per far sì che l’operazione possa avere almeno una remota probabilità di riuscita) consiste nel fingere di dover girare in Iran un film canadese di fantascienza, dal suggestivo ma misterioso titolo di Argo.
E immediata lode sia a Ben Affleck per almeno due motivi: come attore, per la recitazione contenuta, avvalorata da un’acconciatura pilifera alla Cacciari che ne esalta gli alati zigomi come le prime occhiaie, determinandone la felice fuoriuscita estetica dalla folta schiera dei bambolotti hollywoodiani; come regista, per la chiarezza sicura con cui dirige la sua terza opera (Gone baby gone – 2007, The town – 2009) mettendone in evidenza i paradossi con consumata perizia.
Che la storia nella storia, così come il film nel film siano espedienti già arcinoti non vi sono dubbi; ma qui il fascino consiste nel doppio avvitamento del vero sul falso, entrambi avvalorati dalla Cronaca, che viene sempre opportunamente inserita attraverso significativi spezzoni d’epoca, senza mai cadere nella fin troppo accattivante tentazione di gigioneggiare sino alla nausea, giocando sui vari piani del racconto, sia metaforici che reali, e sull’assemblaggio dei diversi materiali.
Invece il risultato è di una diligenza ispirata, che ben si destreggia tra il dramma, l’ironia, la suspence e l’ispirazione letteraria, senza tralasciare di avvincere il pubblico con una apparente ma smaliziata semplicità. Si vedano in questo senso i moti della folla, già visti cento volte e che pure trasmettono perfettamente la cecità brutale della specie contro la specie e della carne contro la carne; oppure la preparazione dell’operazione, con veri professionisti del cinema che si prestano viceversa alla finzione, mentre il copione ricama sia sulla fatuità del mondo della celluloide che su quello dei servizi segreti; o alle figure appena accennate eppure incombenti dell’ambasciatore canadese, della moglie e dell’ancella indigena che non si sa da che parte stia; oppure, ancora, all’infantile meraviglia delle guardie iraniane nei confronti della filmografia occidentale, anche se di dozzina.
Tutti i particolari sono curati grazie a un ottimo copione che conosce bene i tempi e i modi del narrare, a un esercito di esperti (dal casting, alle scenografie, alla fotografia – con un’indimenticabile, scarna ripresa dal basso della basilica di Santa Sofia a Istanbul) sullo sfondo di una sicura, moderna concezione dell’intrattenimento – anche popolare – di qualità. Al punto che l’americanismo consacrato dal diritto costituzionale alla felicità non viene diluito o nascosto, ma riscatta la sua possibile retorica dolciastra con la degna illustrazione delle falle e delle pecche, anche patetiche, di una cultura consolidata e tendenzialmente egemone.
A missione compiuta, l’opportunità politica farà sì che il merito della vittoria vada ad altri, in modo che di una sfida paradossale rimangano una stretta di mano e la grezza illustrazione di un alieno insieme ad un bambino, mentre l’ignaro figlio vero e ritrovato torna fra le braccia di un padre anonimamente eroico, protagonista di una storia assurda come l’invenzione di un affabulatore spudorato.
ARGO di Ben Affleck, Usa 2012, durata 120 minuti