A DANGEROUS METHOD
Se si dovesse chiedere ad un uomo quali siano, secondo lui, i classici protagonisti di un triangolo amoroso, probabilmente risponderebbe: lui, lei, l’altra. In questo caso, invece, l’ottica è più “femminile”, trattandosi di due lui e una lei. Ma non si parla di personaggi anonimi, ringalluzziti o dilaniati dai soliti eterni intrighi amorosi (che inevitabilmente coinvolgono anche altre vite, facendo di ogni triangolo almeno un pentagono). Bensì dei più autorevoli psicanalisti del ‘900, ossia Freud e Jung. Anzi, a ben guardare, il personaggio femminile non è tanto quella paziente che fu storicamente amante almeno di uno dei due, bensì, in modo più incestuoso, proprio la nuova scienza di cui i due stavano ponendo le prime fondamenta. Con piglio pionieristico e ortodosso Freud, pur se timoroso delle ripercussioni sociali e dei relativi ostracismi; con aperture più eterogenee e meno canoniche Jung, facilitato anche dall’essere “secondo”, nonché ariano e abbiente.
Il film si apre con l’ariosa eleganza degli inizi del secolo scorso: una ricca carrozza trasporta una ricca ragazza, appena sconvolta da una violenta crisi isterica, presso la patrizia clinica del dottor Jung. Il celebre lettino viennese di Freud viene qui sostituito da due spartane sedie di evidente efficacia, visto che la giovane inizia a fare crude ammissioni e incredibili progressi. Si rivela così dotatissima per la materia, al punto da diventare matricola di medicina. E mentre il classico transfert opera in favore di Jung, lui si dibatte fra deontologia e incanti, attratto dalla bellezza e dall’intelligenza di lei.
Le tentazioni e le ripulse si protraggono nel tempo, mentre il tema delle coincidenze junghiane affiora, favorendo così l’iniziale scambio di rapporti fra i due studiosi. Intanto gli eventi seguono il loro corso: fra mogli, figli, tentennamenti, rimproveri interiori, censure e omissioni. Il dialogo tra gli scienziati serpeggia, ora diretto ora epistolare; e poi finalmente, si va a finire nel letto di lei, con le sculacciate erotiche di lui. A dimostrazione che anche i massimi esperti – in quanto umani troppo umani – pasticciano in amore esattamente come tutti gli altri.
Nel contempo si dibatte a proposito di libido, motore primo della psiche, che Freud identifica esclusivamente con la sessualità, mentre Jung tende ad allargarne i confini; si analizzano i sogni e i simboli, ritenuti da Freud come pulsioni date e ripetitive, inaccettabili per la coscienza, mentre per Jung, se opportunamente indirizzati, possono costituire una possibilità per aprirsi al nuovo. Si affrontano casi clinici specifici, e dove Freud tende a concentrarsi unicamente sui singoli soggetti, Jung cerca piuttosto di collocare il paziente all’interno del suo contesto ambientale. Fino alla rottura, in cui ognuno si allontana dalle teorie inizialmente condivise, in coincidenza con l’abbandono della medesima Sabine, incinta di un altro.
Cronenberg è un regista originale ed eclettico che, pur nella diversità dei suoi film (La mosca, il pasto nudo, Spider, A history of violence, La promessa dell’assassino) sembra privilegiare da sempre una sorta di inclinazione per i temi in cui gli elementi della psiche sono strettamente interrelati con una cupa evidenza corporale. Quindi non stupisce che il caso clinicamente storico di Sabine Spielrein lo abbia catturato, con tutta la violenza che sta spesso all’origine di certi disturbi mentali; violenza che su di un piano metaforico può concernere gli inizi di un metodo che forza i misteri della natura umana, rendendo esplicito il non dicibile.
Sorprende viceversa un’angolazione pacata che, dietro una relazione proibita fra medico e paziente, illustra la connessione di due menti maschili distanti e vicine che si affascinano,si influenzano e si contrastano, tra tutti i dubbi, le angosce, le speranze che accompagnano i primi esploratori di una terra di nessuno. Per la prima volta, quindi, il regista sacrifica le sue ambientazioni crude a favore di un levigato fluire che sembra addirittura apparentarlo esteticamente a un Ivory prima maniera: ogni inquadratura è elegante, filologicamente viscontiana, luminosa anche nei recessi più bui, a tratti cartolinesca, se non fosse animata da una sceneggiatura di grande abilità.
Cronenberg si destreggia con precisione divulgativa, ma anche con estrema naturalezza, senza mai cadere nel didattico o nel banale, schivando ogni fanfara eroica. L’adozione dei dialoghi diretti o epistolari per esempio è articolata, curiosa, semplice, di bon ton. Non annoia, non è astrusa, non inalbera pretese scientifiche, ma riesce a far misurare con mano lo scarto fra la percezione di un passato estremamente lontano, e la realtà cronologica che non va oltre il secolo. Dimostrando anche come potesse essere sconveniente ai tempi un ramo della medicina ormai famigliare, eppure ancora discusso in termini di efficacia e di risultati.
Difficile per lo spettatore stabilire quanto il racconto sia arbitraria interpretazione o ricostruzione rigorosa. Certo è un’operazione coraggiosa – come tutte le iniziative che danno corpo e voce a dei mostri sacri – e decisamente più omogenea di un film analogo (Freud, passioni segrete, John Huston,1962). Si avverte come il regista vi abbia posto una cura particolare, sacrificando con diligente passione i toni che gli sono più congeniali. In questo senso, non una pellicola tra le sue più memorabili, ma un’opera dignitosa che sa incastonare con grazia sia i grandi che i piccoli accenni culturali secondo una matrice filo-europea. Si veda, a questo proposito, la deliziosa battuta sugli angeli che possono parlare unicamente in tedesco, e che da sola apre un mondo di riferimenti, da Benjamin a Klee a Wenders.
A DANGEROUS METHOD di David Cronenberg, Germania Canada 2011, durata 93 minuti