QUATTORDICESIMO BOUQUET
IL MARE di John Banville, Guanda 2007, 208 pagine.BOOKER PRIZE 2005
Max Morden, svogliato critico d’arte che ama sopra tutti i pittori francesi, si trova in quella fase della vita in cui lo spazio della memoria sta per ingoiare definitivamente quello della progettualità. E non solo per motivi meramente anagrafici, ma anche per i lutti che stanno facendo deragliare la sua vita. E così, fra passato e presente, perchè il futuro puo’ essere ormai contemplato solo come cessazione, si trova a fare i conti fra quanto perseguito e sperato e quanto realizzato, in una incessante altalena tra un’estate fondante della sua adolescenza e il percorso di morte della moglie. E la straordinarietà di questo romanzo , già scritto molte volte da innumeri scrittori, risiede nella quasi sconvolgente qualità dell’espressione e dei punti di vista, sì che il lettore, pur assistendo alla vita di un altro, si trova a ripercorrere in parallelo la propria, con particolare riferimento a quei momenti in cui, passata l’autoreferenzialità dell’infanzia, si scopre la propria interazione con il mondo e il conseguente contributo che le relazioni con gli altri determinano nell’addensarsi del sé .E nel grumo ormai catarroso della persona che si è diventati , si ripercorrono le radici del nostro agire e divenire successivi ,abitati da tre o quattro motivazioni fondamentali, ma corroborate da un sentimento che con la maturità si affievolisce: la curiosità, la sfida, la scommessa sul come andrà a finire, quando il tempo presunto lusinga con la sua inesauribile – e ingannevole – disponibilità. E per un’unica volta ci si trova d’accordo con una frase della critica, citata in copertina ”Un romanzo di rara potenza, un capolavoro impietoso dei libri degli altri” . Raccomandandone a chiunque la lettura, si sottolineano ancora alcune – ormai rarissime – particolarità: il fraseggiare sofisticato eppure sempre pianamente limpido; la spontanea – o sorvegliatissima?- capacità di essere in qualsiasi punto del libro lì e altrove, con effetti straordinari di suggestione e di straniamento ; la qualità della riflessione sull’esistere, mai verbosa o concettuale, ma sempre annidata con quasi umiltà nell’evidenza dei fatti, approcciati con un particolare tipo di scarto ottico che li rende universali e unici nel medesimo tempo. Il tessuto pittorico, steso come un velo emotivo su di una natura che è al tempo stesso generatrice di stati d’animo e di eventi, ma anche sfondo accogliente e determinante per la poetica della narrazione; la supremazia del romanzo sulla pittura nell’esprimere l’avventura della vita, nient’altro che una progressiva approssimazione alla morte. Si veda, in questo senso, la riflessione dell’autore su un quadro di Bonnard e il romanzo stesso. Buona lettura, anche perchè il libro ha un’ ulteriore qualità, ossia un’ironia di stampo bellowiano.
DAVID GOLDER di Irène Némirowsky Adelphi 2006 , 180 pagine
Guardando le copertine dei libri di Irène Némirovsky si viene subito catturati da quei due accenti così prossimi e così divaricati , come mani di preghiere inesaudite, letterariamente e simbolicamente presaghi di dicotomie , opposizioni, scarti. E dalla concisione meditata dei titoli ,in cui tutto in qualche modo è già racchiuso e illustrato. Tematiche annunciate sin dall’inizio in David Golder, nome ebraico, cognome che trasuda oro, percorso di vita inizialmente improbabile ma in seguito linearmente imboccato, come un sacrificio di poco procrastinabile. E intorno all’uomo d’affari venuto dal niente, la devastazione degli interessi a scapito degli affetti sullo sfondo miserabile e sontuoso di una Costa atlantica dove monde e démi monde non sono più separati , ma declinati secondo le categorie dell’avere e dell’apparire. Parte dai vertici, Irène: Proust, Henry James, Edith Wharton e attraversa la letteratura contemporanea armata di una straordinaria precocità , non diversamente dal Fitzgerald del grande Gatsby – quasi stessa data di edizione – o dall’Evelin Waugh di Una manciata di polvere. Nel suo modo di scrivere un substrato di intelligenza, cultura, cosmopolitismo apparentabile a quello di Nabokov. E su tutti, il Tolstoi della morte di Ivan Ilic. Identici i percorsi dei due protagonisti, identica la loro reazione, identica l’indifferenza impaziente e disseccata dell’entourage, identica la loro fine, con quella strettoia obbligata satura di buio e simile ad un rantolo. Che in Tolstoi prelude alla luce e in Irene termina con un nome mormorato, unico accenno di affettività in una vita senza Gerasim, e quindi senza remissione. Eppure, nonostante questa folla di richiami e di suggestioni, la voce è vigorosa, sicura, personale, di una maturità stupefacente , capace di coniugare il senso dell’esistere con un timbro russo di forti contrasti fotografici alla Eisenstein , appena stemperato in un segno più lieve, rintoccando atmosfere e stati d’animo in una tenda sanguigna, un tintinnare di gocce di cristallo mosse dal vento, uno scricchiolio di ghiaia sotto la luna, una lampadina agonizzante , il buco di una pallottola nel muro.
DES MIMOSAS Pierre Bonnard 1915