I MOTIVI DI SCURATI
Approfittiamo dell’uscita del temerario e riuscitissimo romanzo Il padre infedele per tentare un profilo di Antonio Scurati, raccomandando caldamente la lettura sia dell’ultimo titolo che degli altri suoi libri.
Ci sono scrittori che si incontrano, e dall’incontro possono scaturire rapporti imprevedibili di poche ore o intermittenze variabili che durano una vita. Altri che si ri-conoscono, così da indossarli come quei vecchi maglioni irrinunciabili, fodere familiari di pori e di respiri. Per noi Scurati è appartenuto da subito alla seconda categoria, ed è difficile scontornarne i motivi senza tirare discutibilmente in ballo anche se stessi, fatto di per sé né critico né interessante. Con uno sforzo di sintesi, potremmo dire che è un autore che ammiriamo perché varia e sperimenta, avvolgendo le sue qualità artistiche intorno al perno solido di una lucida intelligenza oppositiva (aggettivo da intendersi come confronto dialettico con i tempi) che non si accontenta della superficie dei fenomeni, senza per questo sacrificare la creatività dell’invenzione al ditino alzato della morale o della sociologia. Con una onestà o fermezza di sguardi che affonda anche nella crudezza tipica di chi crede-dispera nei confronti di un diverso, illuminato umanesimo.
Prendiamo tre suoi libri apparentemente diversissimi e chiediamoci cos’hanno in comune un professore scampato ad una strage (Il sopravvissuto, 2005) una Venezia distopica (La seconda mezzanotte, 2011), un’esistenza resa significante quasi in extremis dalla paternità (Il padre infedele, 2013). Innanzitutto una firma nata adulta, e poi non tanto la fondazione di un mondo di riferimento, quanto la capacità di costruirne molti, eppure sulla base di un unico, variatissimo perimetro, tracciato intorno al concetto di resistenza e di salvezza: zampe in meno, credenze e carapaci sfranti, cesure definite tra un prima e un dopo, a separare i tendoni teatrali di un continuum temporale intriso di codici talora violenti e comunque stremati.
Autore pratico e funzionale a quanto vuole esprimere, Scurati coglie spunti sia dalla cronaca come dalla contaminazione dei generi, sullo sfondo del sentimento dei tempi, e li riversa in strutture articolate più in quadri che in capitoli, i cui titoli non solo illustrano o incorniciano ciò che rappresentano, ma sono parte essenziale della dinamica degli eventi: ogni sintesi fa rifiatare il racconto, gli conferisce coesione, sta come un guscio all’uovo della narrazione o come la didattica rispetto ai contenuti, aggiungendo quella chiarezza e fluidità che consentono alla durata romanzesca di scorrere con trascinante naturalezza. Come a dire l’artificio dell’invenzione fondato sui dettagli del reale senza l’apparenza di arbitrari rabbocchi sinfonici, ma con un orecchio attentissimo alla misura musicale interna ai canoni della narrazione.
Anche il linguaggio si colora di conseguenza lungo frasi di ampio respiro, eppure rispettose della capacità polmonare della comprensione grazie ad una sapiente sincopatura, che spesso termina o ricomincia con sintesi perentorie, quasi aforismi da estrapolare per rivenderseli altrove come dimostrazione di comprensione della modernità. Le parole sono ora auliche e forbite, ora umilmente comuni, ad indicare buone letture rielaborate in totale autonomia senza parentele evidenti, e passioni-informazioni specialistiche che assumono connotazioni sia acribiche sia industriosamente artigianali o domestiche. Il puntiglio obbligato dell’orologiaio supporta credibilmente gli effetti senza mai scadere nella mania professorale e i colpi di grancassa si fermano un attimo prima della deflagrazione, a prolungare l’impressione senza sfruttarne artificiosamente gli echi. Intanto il presente continua, come un lenzuolo teso tra passato e futuro, colpa e redenzione.
La commistione di tutti questi elementi potrebbe far pensare ad un Savonarola inattuale, mentre proprio qui si verifica viceversa il miracolo dell’ispirazione e del mestiere di Scurati, critico profondamente radicato nell’oggi e al tempo stesso narratore distaccato e passionale che sa amalgamare gli ingredienti dell’apocalisse (dal greco rivelazione, composto dai termini separare e nascondere) secondo un radicatissimo senso dell’intrattenimento. Ogni suo romanzo è inconfondibilmente suo sin dalle prime righe e si può leggere su piani diversi senza che mai venga meno il piacere infantile di sostare per sentirsi raccontare una grande storia, con tutti i sacrosanti crismi dell’affabulazione: ora cupa, ora ironica, ora disperata, spesso sospesa sino alla fine, eppure densa di una desolata pietas coniugata coi vagiti della speranza, dove il sentimento del vivere diventa rivolta partecipe, sempre permeata da un senso di virile – e perciò anche materna – responsabilità.