IL PADRE DEI MIEI FIGLI
Cominciamo da prima dell’inizio, ossia dal titolo: subito vengono in mente famiglie allargate, rapporti modulari, intrecci multipli, ossia il geniale Claude Sautet con i suoi anni ’70: E’ simpatico ma gli romperei il muso, Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre, ecc.
Ora trasferiamoci a dopo la fine, ossia alla canzone che accompagna i titoli di coda: Que sera sera, Oscar 1956, scritta per il film di Hitchcock L’uomo che sapeva troppo e cantata da Doris Day. Grandi riferimenti…
In mezzo, il film e la sua artefice, ossia la giovanissima regista (classe 1981) che, come minimo, c’entra poco e presume troppo, ispirandosi ad una storia vera e facendo pensosamente riferimento ai figli intesi sia come prodotti biologi che artistici.
Perché il padre di cui si parla è un produttore cinematografico, sposato con tre bambine, supposta buona borghesia, presumibile buon gusto, tante idee, soldi che scarseggiano e debiti che si accumulano progressivamente. E per un’ora assistiamo ad una serie volutamente inerte di eventi qualsiasi: dialoghi con i registi, le banche, gli aspiranti sceneggiatori, i pochi collaboratori, la moglie e le figlie. Nume assoluto: il cellulare, che si sovrappone ad un attore che non si capisce se naturalmente insignificante di suo o viceversa bravo a recitare l’insignificanza.
E’ come se anche il concetto televisivo di mediocrità, legato all’imperativo categorico “i protagonisti siete voi, spettatori qualsiasi” fosse nel contempo filtrato pure nel cinema. Un cinema che in questa pellicola fa di tutto per essere esteriormente preciso ma al tempo stesso snobisticamente sotto tono circa gli aspetti psicologici, come se soltanto le ore di tutti i giorni fossero in grado di descrivere i personaggi, mediante il trascorrere per addizione del tempo. In sintesi, l’opposto del fascino del narrare, che elude il quotidiano ripetitivo, per inscenare solo il saliente, lo straordinario.
Finché, dopo un’ora non solo di lavoro, ma anche di paternità stereotipata, improvvisamente, la grande cesura. Dopo però il film continua con il suo trotterellare semisvagato, appiattendosi sui cascami ovvi della tragedia, reintroducendo il registro della prima parte, ma questa volta togliendosi contemporaneamente anche lo sfizio di iniettare momenti da fotoromanzo (tra Liala e Carolina Invernizio) fino proprio al Que sera sera sera finale. Che è come scoprire finalmente che siamo di passaggio, signora mia, e che, per chi rimane vivo, la vita continua, secondo una dotta citazione ripresa da Monsieur de la Palisse. Non si sa in che direzione, ma va bene lo stesso, purchessia….
Ora, si simpatizza con i pochissimi anni della regista e si sarebbe disposti anche ad una maggior indulgenza, se non ci trovassimo di fronte una ventinovenne così assuefatta all’abbigliamento, al trucco e al parrucco coordinatissimi da sembrare anziana. Formalmente il film non ha pecche vistose, ma l’inesperienza dell’autrice emerge nella sostanza, ossia nella ingenua ma supponente trattazione dei temi, nell’assoluta mancanza di argomenti atti a sostenere la necessità o le ragioni dell’arte: intesa sia come produzione del bello, come del saper vivere e del saper morire. Visto che il protagonista non è un sensale di videocassette, ma mirerebbe a tirarsela da colto e esistenzialmente illuminato, pur essendo a corto di argomenti in proposito.
Ad una giovane viceversa, avremmo voluto chiedere più errori, casomai un minor atteggiarsi, ma una maggior freschezza, se non originalità. Invece ancora un film-scatola, presuntuoso negli addobbi a gale e cuoricini della confezione, ma con un contenuto già rancido. Tuttavia, siccome pare sia abbastanza piaciuto, ai francesi perché è comunque una “loro” produzione, agli italiani per l’impiego di Chiara Caselli, che era quasi sparita dalla circolazione, ci limitiamo a dire che può trovare degli adepti.
IL PADRE DEI MIEI FIGLI di Mia Hansen-Love, Francia 2009, durata 110 minuti