POST MORTEM
All’indimenticabile personaggio di Tony Manero, una specie di Al Pacino intisichito con l’insano desiderio di incarnare a qualsiasi costo il personaggio di John Travolta ne La febbre del sabato sera (ossia la simulazione di una finzione), subentra ora, con le sembianze dello stesso attore, il personaggio di Mario, stenografo. Altrettanto assorto in un unico pensiero, altrettanto solo, vagante in modo quasi autistico all’interno di un Cile devastato dalla politica: nel primo caso eravamo intorno al 1978, con la banda di Pinochet, mentre in questo film le vicende sono precedenti, ambientate proprio durante il colpo di Stato del 1973.
Stenografo, si diceva, anche se il protagonista si dichiara impiegato, temendo di rivelare di essere colui che batte a macchina le diagnosi delle sempre più frequenti autopsie. E qui non siamo più nella simulazione di una finzione, ma nella storia quotidiana, testimoniata e vivisezionata in senso letterale e metaforico. Cadavere vivente tra i cadaveri, Mario si muove in una sola direzione, malgrado tutto, come se nulla intorno accadesse proprio mentre accade.
Intrecciando ancora una volta le vicende di un protagonista con gli accadimenti politici del momento, Larrain, insieme a molti altri recenti autori sud-americani, usa la storia come uno specchio del privato e dell’individuale. Ma in una maniera così sconsolatamente cruda e frontale da riuscire a generarne quasi un’astrazione. Per farlo si avvale di colori da neon acquarellati, che debordano gli uni negli altri senza riuscire però a confondere sui fondali le sagome degli umani.
Così come nitidissima e quasi circolare risulta la sceneggiatura, che, appena ambientata, si apre con l’epilogo della storia. Ma il percorso attaverso il quale ritorna su se stessa non è narrativamente prevedibile, anche se alla fine, psicologicamente, tutto torna. E questa indifferenziabilità del male, che osa sovrapporre la descrizione del corpo di Allende, assassinato inscenando un finto suicidio, all’autopsia sull’amata, unica ragione dell’esistenza del protagonista, mettendo entrambi i cadaveri sullo stesso piano, riassume l’intera cifra del film.
Perchè tutto è squallido in quanto umano; e tutto, in quanto umano, è nel contempo storia. Senza rimedio nè remissione di nessun peccato. Le piccole mortificazioni, gli errori psicologici, i tradimenti del corpo, così come quelli ideologici, fanno tutti parte dello stesso strisciare, che è violento, impietoso, spesso sordido, eppure capace di delicatezze e di passione, così come di slanci di temeraria nobiltà platonica.
Accanto al modo di girare e di concepire la trama, una menzione speciale va anche al modo di dirigere gli attori. Fra i quali spicca in maniera indelebile questo latino Buster Keaton di mezza età, proletario in Tony Manero, piccolissimo borghese con tentativi di distinzione in Post mortem. Eppure, il viso inconfondibile di Alfonso Castro, solo con una lisciata ai capelli ingrigiti, entra sotto la pelle dei personaggi. Confondendosi lui, paradossalmente sempre riconoscibilissimo, e rendendo unici loro. E contribuendo anche alla riconoscibilità del regista, che riesce a consegnarci un film senza sconti, sfacciatamente realistico eppur a suo modo sonnambulicamente poetico, da consigliare a coloro che hanno amato Il segreto dei suoi occhi: melodrammatico con perfidia quello, matematico con desolazione quest’altro.
Il concorso del Festival di Venezia 2010 è ancora lungi dal concludersi ma, in data ancora non sospetta, ci sbilanciamo a dire che quest’opera ha la statura e le qualità per candidarsi a un qualche premio. E se ci saremo sbagliati, andate a vederla ugualmente.
POST MORTEM di Pablo Larrain , Cile Messico Germania 2010, durata 90 minuti