GORBACIOF
Insomma, non c’è niente da fare: pur non essendo degli sfegatati fanclubbisti da curva sud, già dal primo fotogramma in cui Toni Servillo compare si comprende che il film è lui.
Spavaldo e consuntamente aitante, in un completo uguale dall’inizio alla fine e che lascia presupporre esercizi fisici e cattivo cibo, il sesso oscillante sotto i pantaloni, le gambe arcuate e i capelli appiattiti dalla brillantina: Marino Pacileo, alias Gorbaciof (dalla voglia di vino sulla fronte), trasuda disincanto e solitudine.
Siamo dalle parti di Le conseguenze dell’amore, di Paolo Sorrentino. E non solo per la centralità del personaggio – quasi gelido e quasi muto, eppure capace di inaspettate delicatezze sentimentali. Ma pure per la colorazione della pellicola, giocata tra i rossi sospesi e i verdi inquinati della pittura di Edward Hopper (che ultimamente si porta moltissimo), ma ahimé priva di quei giochi continui di geometrie sfalsate che contribuivano a dare all’ambientazione di Sorrentino un ineguagliabile fascino.
Del resto non siamo in Svizzera, ma nella Napoli di Diego De Silva, sceneggiatore del film, con contorno di ammiccamenti, illegalità più o meno veniali, coinvolgimenti eterodossi tra liberi professionisti e malaffare.
La trama è presto raccontata. Gorbaciof è un cassiere, meglio un ”ragioniere di carcere”, con il vizio del gioco. Sottrae, inizialmente in prestito, soldi all’ente, per poi rifonderli in caso di vincita. Ma si sa che i giocatori perdono quasi sempre, è il fascino dello scacco travestito da speranza. Sicché ad un certo punto è costretto a piegarsi sempre un po’ di più, affondando poco per volta in un torbido gioco, meschino e pericoloso, patrocinato su più fronti da figure che dovrebbero viceversa assicurare la giustizia. Fino a che l’amore non interviene, facendo dell’ambiguo protagonista un campione di fierezza e di abnegazione a protezione dell’amata: una giovane e incantevole asiatica, che il padre ristoratore e biscazziere rischia di giocarsi a poker, per le brame dei più. E già si intuisce come va a finire.
Male, malissimo, e non solo nel senso della storia. Perché a partire dal sessantesimo minuto il film comincia ad annaspare vistosamente, con una pressante fretta di concludere. Tanto, sembra sottintendere il regista, Servillo-Pacileo-Gorbaciof, quello che poteva dare ormai l’ha dato, chi s’è visto s’è visto, lo scambino pure per un cortometraggio.
Quindi, mentre gli occhi di lui si chiudono per sempre e il sangue invade il frusto completo principe di Galles (per la gloria delle tintorie), i finestroni lacrimosi dell’immancabile aeroporto riflettono la figura di lei che aspetta invano. Trasformando la sua orientale enigmaticità , rafforzata dalla non padronanza dell’italiano (un contrappunto affascinante alla laconicità di lui) in una scialba pubblicità da involtini primavera.
Stefano Incerti, il regista, è del ’65 ed ha una lunga filmografia alle spalle. La gestazione di quest’ultimo film ha titubato per parecchi anni, e questo potrebbe spiegarne l’assenza di compattezza. Tuttavia il talento direttivo rimane, e si esplica anche nella capacità di immergere la pellicola in una vischiosità di umori animali e razziali di ogni genere, in grado di restituirci l’umanità che si vuole rappresentare con grande immediatezza. Quella che latita è la sceneggiatura, che, individuati il personaggio e la storia, poteva fare di più, visto che De Silva (almeno nei suoi libri) non è solo un sottile umorista dall’intercalare scrittorio inconfondibile, ma anche un felice inventore di incidenti, come di sfondi e di individualità singolari. Qui probabilmente non riesce a trascendere il suo principale protagonista, l’avvocato Malinconico di Non avevo capito niente e del recentissimo Mia suocera beve.
Il film meriterebbe un giudizio alto per l’interpretazione sia fisica che psicologica di Servillo, uno medio per la regia, la fotografia e il cast, uno basso per la sceneggiatura. E’ quindi d’obbligo il ricorso ad un media non matematica: ma andate a vederlo, se non altro per Lui.
GORBACIOF , di Stefano Incerti, Italia 2010, durata 85 minuti