L’ILLUSIONISTA
Tre avvertimenti quasi perentori: chi scarta questo film perché d’animazione non in 3D, sbaglia. Chi coltiva delle aspettative molto alte, memore della precedente, ineguagliabile pellicola di Chomet (Appuntamento a Belleville, 2003) sbaglia di nuovo. Chi crede utile, come in molti percorsi scolastici, volgere la poesia in prosa, per renderla più comprensibile, sbaglia ancora. Chi ama il disegno, invece, acquisti il biglietto e lo metta a frutto.
Tecnicamente entriamo in un mondo in cui tutto ciò che è fisicamente “mobile” (esseri umani, animali) è tracciato a mano, mentre gli sfondi delle città e della natura sono in digitale, a sua volta graficizzato quando piove, tira vento o ci sono le nuvole, nonché dilatato da inquadrature particolarmente lente, che esaltano il trascolorare delle luci diurne e notturne.
Sempre tecnicamente, il film è muto, nel senso che i personaggi biascicano, squittiscono o zigano raramente, secondo astrazioni linguistiche prettamente tonali, rispettivamente francesi, inglesi, leporidi. Mentre i rumori del vivere sono invece naturalistici, se non naturali, e le musiche si compenetrano con le immagini, variando in parecchie direzioni: dal rock al folk, dalla chitarra alla fisarmonica all’organetto.
Ancora tecnicamente, la storia è tratta da un abbozzo di Jacques Tati (di cui Chomet è da sempre un fervente ammiratore), scritto ai tempi in cui girava Mon oncle (1958) e giunto nelle mani del regista tramite la figlia oggi defunta, cui l’opera è dedicata. E questa discendenza dal grande mimo è la curiosità, ma anche il difetto del film. Nel senso che qualsiasi cinefilo dilettante ha modo di cogliere con delizia parecchie citazioni, dalle caratteristiche fisiche del protagonista al modo di “girare” (le inquadrature, per esempio, sono spesso dal basso verso l’alto e abbondano di scarpe e di piedi, come nei sogni del più agguerrito dei feticisti). Senza dimenticare il modo di far muovere i personaggi, con una mitezza piena di slancio che si traduce in linee brevi e scandite, eppure come trattenute da un’imperante timore.
Ma, accennavamo, è anche il suo difetto, perché sembra che il regista, confrontandosi con il maestro, sia costretto ad una operazione mimetica di sudditanza, che diluisce la robusta e originale inventiva di cui aveva dato precedentemente prova, sia in termini di elaborazione della trama, come nel tratteggiamento dei caratteri.
E la storia di Tati infatti è presto riassunta: l’affacciarsi del benessere e del rock’n’roll (siamo intorno alla metà degli anni ’50) costrigono un soave quanto antiquato prestidigitatore a lasciare la Francia per l’Inghilterra, collezionando insuccessi, fino a ridursi ad operare in squallide locande della Scozia, accompagnato da un coniglio bianco irrequieto e un po’ carogna. L’incontro con una ragazzetta che fa le pulizie in una locanda lo porta ad Edimburgo insieme a lei, che lo scambia per un mago vero, capace di mutare i desideri in realtà. Nella sua solitudine altruista, lui cerca varie occupazioni, finché la mancanza di lavoro e di denaro, l’incontro della giovane con un coetaneo, e soprattutto il suo trepidante affacciarsi al consumismo, lo portano ad allontanarsi, lasciando un irrimediabile messaggio, in fondo anche a se stesso: i maghi non esistono.
Dunque, delicata ma esile la storia, in bilico tra il realismo magico e la sociologia. Appena accennati i caratteri, più fisici che interiori. La segmentazione di lui, insaccato in un patetico costume color lampone, che lo scompone in tre strati: lunghe gambe goffe, fianchi grassocci da donna, spalle strette a schivare i colpi del destino. La metamorfosi di lei, da ingenua campagnola in ciabatte a ingenua cotonata con abiti a corolla e tacchetti. La deriva dei compagni di spettacolo, un clown ed un ventriloquo con il suo pupazzo.
Che cosa rimane? La delicatezza di tanti, continui, originali tocchi poetici, appunto intraducibili in prosa, e l’invenzione fantasiosa e minuziosa di paesaggi sia fisici che climatici, che culminano in una Edimburgo magnifica, da bocca aperta. E una grafica di grandissima ispirazione e mestiere, che fa venir voglia di continuare a disegnare o a essere disegnati. La media del voto va fatta quindi considerando l’eccellenza della regia e della realizzazione, e la soggezione della sceneggiatura. Menzione speciale per il coniglio.
L’ILLUSIONISTA di Sylvain Chomet, Gran Bretagna Francia 2010, durata 80 minuti