Film

LA DONNA CHE CANTA

Una finestra aperta su un paesaggio frusciante di pietre e di ulivi. E un bambino tosato a forza dai nemici che guarda in macchina. Stacco. Un ufficetto notarile in Canada, dove due gemelli orbati ricevono le ultime volontà della madre. E, insieme al testamento, due buste da consegnare a un padre sconosciuto e a un fratello insospettato. Stacco. La madre da giovane che parte a sua volta alla ricerca del figlio che è stata costretta ad abbandonare. Stacco. Citazioni matematiche da Archimede e da Eulero, con il problema dei ponti di Konisberg. Stacco.

Ce n’è abbastanza per capire da subito che si sta assistendo ad un’ambiziosissima tragedia edipica sull’agnizione, attingendo dalla Bibbia, dai vangeli, da Eschilosofocleuripide, da Plauto, da Seneca, da Shakespeare, da C’è posta per te di Maria de Filippi. Nonché dal testo teatrale Incendies di Wajdi Mouawad, che sta alla base della sceneggiatura, la quale cerca invano di far dimenticare la rigidità dell’impianto teatrale d’origine facendolo assurgere a teorema. Con tanto di cartelli agli snodi, perché altrimenti ci si perderebbe due volte: sia per l’andirivieni cronologico (si vede che ormai i tracciati rettilinei al cinema fanno schifo) che per l’incomprensibilità storica del conflitto bellico che dovrebbe sustanziare il film ma che in realtà è trattato come un pretestuoso fondale. Non volendo spingerci oltre nella tramona (del resto altamente improbabile se non altro per ragioni anagrafiche ci limitiamo a citarne la chiave, che sta nel seguente paradosso: 1+1=1.

Candidato come miglior film straniero agli Oscar 2011, l’opera è destinata a piacere: perché ha una visione del tutto tradizionale della guerra; perché può commuovere gli animi sensibili; perché si prende dei tempi lunghissimi di narrazione senza essere troppo noioso; perché è possibile che non si indovini da subito la formula matematica sopra citata. Perché, infine, la cinematografia ha oggi raggiunto una sapienza tecnica tale da confezionare in modo elegante anche i regali riciclati. E’ infatti in grado di sembrare nuova per i giovani che non hanno memoria dei precedenti e nello stesso tempo costituire un ripasso nostalgico per chi questa memoria ce l’ha.

Filmicamente, però, non dice un granché, né nella sostanza né nella forma, pur sapendo levigare bene le molte supponenze e goffaggini. Così che, ancora una volta, un’operazione frigida può generare interesse e commozione, facendo scambiare la mente per il cuore. E dando la sensazione di potersi addentrare con disinvoltura nel mondo ormai orecchiato dei tumulti storici del medio oriente. Non molto diversamente, in fondo, da un film di altra estrazione, ma altrettanto abile nel marketing della lacrima pensosa: Il responsabile delle risorse umane, guarda caso anche lui candidato agli Oscar nella medesima categoria .

Cosa rimane di positivo per chi dissente? Di nuovo il paesaggio, tortuosamente verde e piattamente arso, tale da far comprendere perché Dio (o il caso) vi abbia inscenato la passione di Cristo. La fotografia, abile nello sfruttare le location, e nell’inserire talvolta la centralità delle figure umane di lato, a margine, quasi dimesse. Alcuni momenti del conflitto, dove le ragioni e i torti, gli amici e i nemici si confondono con l’azzardo o con il destino. L’anonimato della colonna sonora e soprattutto degli attori, perfettamente in grado di non soverchiare la trama, che rimane , secondo il regista, il vero, orrorifico asso nella manica. Stacco. E distacco.

LA DONNA CHE CANTA di Denis Villeneuve, Canada 2010, durata 130 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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