RABBIT HOLE
Cosa si può fare contro il dolore? Tanto più se questo dolore non solo è irrimediabile, ma anche contro natura, riguardando due giovani genitori costretti a sopravvivere al proprio figlio, che cosa si può fare? Niente o (quasi) tutto. Ed è appunto il “quasi tutto” che il film descrive nitidamente, declinandosi sulla base di un assurdo geometrico, ossia la divergenza progressiva fra due parallele.
Perché lei (Nicole Kidman), cerca di attaccarsi alla stolida ripetitività della casalinghitudine, cancellando nel contempo ogni traccia residua di quella piccola presenza: dai giochi, ai disegni e ai vestitini. Mentre lui (Aaron Eckhart) in quanto uomo, esce di casa e lavora; ma di notte riguarda compulsivamente sul cellulare il filmino del figlio. Praticano un gruppo di sostegno, ma lei se ne allontana per la troppo ingombrante presenza di Dio, mentre lui pare tentato dal pensiero di una frequentatatrice abbandonata dal marito. E rivuole il cane che la moglie ha allontanato.
Intorno, la natura di giardini e giardinetti continua a fiorire nella sua sovrana indifferenza , i giorni si succedono. Gli amici e i parenti vengono in qualche modo allontanati o si allontanano, che il dolore spesso crea non partecipazione, ma imbarazzo. Intanto la sorella di lei aspetta un figlio, e la madre le spiega che certi lutti prima ti piegano; poi non passano, ma rimangono come mattoni scivolati dalle spalle in una tasca. Ogni tanto li si dimentica, trascorrendo il tempo, ma poi la mano riaffonda nella tasca e il mattone è sempre lì. E la sua presenza negli anni diventa quasi un conforto, l’unico legame tangibile con chi non c’è più.
La tana del coniglio non è soltanto il buco dove la coppia si sperde e si rifugia, ma anche il titolo del fumetto che il giovane omicida incidentale del bambino sta scrivendo e illustrando. Senza colpa ma con dolore. A cui lei si avvicina e da cui trae conforto. Perché l’universo è grande, e altrettanto le probabilità (laiche) che altri “noi” esistano e passeggino altrove. Così, dal fondo del cunicolo comincia la sua femminile, esitante risalita, pensando che da qualche parte ci sia almeno un’altra lei che si sente meglio.
Film di smarrimenti, dunque, non facile, se non altro perché già girato più volte: uno fra tutti gli esempi illustri, La stanza del figlio di Moretti. Certo, più americano e meno indelebile, ma con parecchi meriti. Innanzitutto la sobrietà essenziale con cui viene descritto l’indicibile, senza mai approfittare dello spettatore, sostituendo silenzi o dialoghi scarni alle retoriche delle grandi orchestrazioni ad effetto. Poi, l’attonita civiltà nella ribellione di questa coppia middle-class statunitense, che si interroga sull’esistenza assolvendo gli altri da qualsiasi colpa. Infine, la sapiente semplicità della sceneggiatura, fatta di piccoli punti e contrappunti, dimessi ma precisissimi nella descrizione di un dolente doppio percorso.
Meriti a loro volta egregiamente sfruttati da una regia attenta, che non chiede a due attori noti di ingombrare lo schermo, né di fingersi qualunque, bensì di mettere la sordina, e che sa avvalersi di un’ottima fotografia, ariosa e piena di luce, in perfetta specularità al buio interiore del lutto e delle sue differenti elaborazioni.
A coronamento di soli novanta minuti mai scontati ed esenti da sbavature, un finale molto umano, che vede il tempo futuro come unico progetto: lentamente, un giorno dopo l’altro.
RABBIT HOLE di John Cameron Mitchell, Usa 2010, durata 90 minuti