CIRKUS COLUMBIA
Finalmente una pellicola che ha una vicenda piena e compiuta da raccontare, e lo sa fare bene, con i ritmi e i dettagli giusti, riadattando un impianto classico alla realtà quotidiana di vite ordinarie, in prossimità del precipitare della Storia.
Siamo in Erzegovina, nel 1991, dopo la caduta del muro di Berlino che segnerà la fine del comunismo, preparando la Jugoslavia del dopo Tito alla guerra fratricida fra Serbi, Croati, Sloveni e Macedoni. Su una Mercedes rossa, sfolgorante di cromature, torna al villaggio nativo lo spregiudicato e maturo Divko, sintesi fisiognomica aggiornata di Yves Montand e Walter Matthau.
Ha lasciato la Germania dopo vent’anni di esilio, assistendo da lontano, sembrerebbe anche economicamente, agli eventi del paesello; paesello a cui riapproda da trionfatore abbiente, arrogante, aureolato da una giovane e bella fidanzata e scaramanticamente assistito dal gatto Bonny, un miciastro viziato e carognesco, il vero amore della sua vita, e che fungerà da inconsapevole coagulo alle vicende del film. Che contemplano anche la presenza di una moglie abbandonata e di un figlio quasi adulto mai conosciuto, un cugino sindaco, un militare di grado intermedio, e molte altre figure e figurine da borgo italiano degli anni 50, ancora contrapposte fra una vita trascorsa in comune e le prime avvisaglie delle future divisioni. Nel mentre si tira avanti, a suon di vetri infranti per dispetto e di strapaesane legnate notturne, anche con qualche occhio pesto.
Lo spettatore assiste così ad una iniziale commedia quasi di stampo neorealistico, dove i personaggi, le loro prerogative e i legami emotivi si precisano attraverso eventi che altro non sono che lo sviluppo dei caratteri a fronte di antichi conti lasciati in sospeso. Con una netta predominanza degli aspetti affettivi intrisi di ironia, di eros, nonché di piccole avidità, prone alla forza di un denaro e di un potere ancora quasi da operetta umile.
Ma mentre il tutto ruota intorno ad una casa contesa, chi vede il film sa che si tratta di una transitorietà affacciata sulla tragedia, di cui i protagonisti saranno tutti vittime, in un’atmosfera artificiosamente sospesa tra il bel tempo e la tempesta: vite modeste stanno per entrare nel massacro della Storia, in un complesso quanto inutile balletto di vittime e carnefici. E il regista e gli attori sono bravissimi nel concentrare l’attenzione sugli svolgimenti quotidiani, addensando via via la minaccia per accenni quasi sommessi, dietro le quinte.
Fino all’epilogo finale, in cui la vecchia giostra calcinculo che apre il film – dandogli anche il titolo – torna a ruotare su se stessa, metafora sin troppo trasparente dei corsi e ricorsi vichiani, in grado di conferire ad ogni singolo protagonista una propria catartica rispettabilità, prima dell’esercizio della guerra e che proprio in questi giorni torna alla ribalta delle cronache con l’arresto del macellaio serbo Ratko Mladic dopo sedici anni di latitanza.
Reduce da un periodo di lunga opacità in seguito all’Oscar e alla Palma d’oro alla sceneggiatura per No man’s land (2001) il regista Danis Tanovic riconsidera lo stesso argomento: là adombrando la prigionia di un serbo e di un croato in una trincea abbandonata, qui concentrandosi sugli inconsapevoli preliminari dei medesimi eventi bellici mediante il sapiente riadattamento del romanzo di Ivica Dikic, a conferma della propria abilità di sceneggiatore. Si aggiungano la scelta di una location e di una scenografia azzeccate, la felice sintonia con un cast di attori tutti perfettamente in parte, e un montaggio che funziona ad orologeria senza darlo a vedere.
Il tutto è illuminato da una artigianalità fluida, acuta nel costruire i personaggi come nel seguire gli snodi della vicenda, a comprova di un pragmatico e sorvegliato mestiere, che si rifiuta di autocompiacersi come di sollecitare la commozione. Si accontenta di raccontare ritorni e partenze tra la luce di una normalità tutta esplicitata e le ombre tragiche di un destino che rimane nell’aria. Valendo la prima ad illuminare i taciuti – ma ormai tragicamente noti – agguati dell’imminenza.
In tempi di sperimentalismi sacrosanti, ma spesso di retroguardia, che vedono proprio nelle sceneggiature i principali elementi di fragilità, un convincente omaggio ad una solidità e ad una compattezza modernamente antiche. Peccato solo quella goccia di sciroppo sul finale, che tuttavia lega senza allappare.
CIRKUS COLUMBIA, di Danis Tanovic, Bosnia –Erzegovina Francia Gran Bretagna Germania Slovenia , durata 113 minuti