FAUST
Come affrontare la recensione di un film da cui si è usciti affranti e desolati? Affranti per la noia sparsa a piene mani, come la semina dei contadini prima dell’avvento delle macchine; desolati per il ricatto che una pretesa “cultura alta” sembra talvolta esercitare nei confronti delle giurie dei festival, che finiscono con il premiare opere ai margini dello specifico cinematografico, comunque lo si voglia intendere.
Quest’anno Cannes ha incoronato come miglior film Tree of life di Terrence Malick e Venezia il Faust di Sokurov. Entrambi sontuosi – e prolissi – sotto il profilo estetico, entrambi astenici dal punto di vista del “pensiero forte” che sembra averli ispirati. Inutile sottolineare come Malick debba lo spunto del suo film ad una sorta di filosofia personale, che si estrinseca in una “americanizzazione della concezione panteistica”, mentre Sokurov sceneggia direttamente da Goethe, per esplicita ammissione dei titoli di testa.
In realtà, di fatto, incrocia l’omonima tragedia di Marlowe e il romanzo di Mann, traendo altresì vari spunti da tutto il complicato iter culturale che si interroga sulla liceità dell’umano impulso conoscitivo rispetto all’empietà etica che questo atteggiamento “desiderante” comporta. Iter culturale che nasce in Germania nel sedicesimo secolo e fa dell’intellettuale l’eroe positivo o negativo, spostando l’attenzione dall’atto del conoscere al soggetto che conosce. Solo che, diversamente dal greco Ulisse (ossessionato dal desiderio di spingersi sempre più in là, e perciò colpevole di hybris, ossia di quella tracotanza che obbliga tragicamente l’uomo a superare i suoi definiti limiti) l’europeo Faust deve vedersela con l’anima e quindi con l’emissario di Dio che è il diavolo, a cui il Sommo Padrone lascia appunto il disbrigo delle faccende sporche.
La scena iniziale si apre su una sorta di sgangherato obitorio, in cui il Dottore pasticcia tra i visceri di un cadavere. Isolato, povero, disperato, incontra una sorta di osceno usuraio che l’accompagnerà per tutto il film, sottoponendogli solo dopo molto tempo il famoso contratto di vendita dell’anima: mentre Faust ha già amato Margherita dopo averne ucciso il fratello, per poi intraprendere un viaggio verso imprecisati lidi quasi danteschi, scagliando un’ultima maledizione che si estrinseca nel desiderio – o condanna – di continuare a spingersi oltre.
Purtroppo l’assunto nobile si perde fra le pieghe di un dialogo incessante fra i due protagonisti, che risente di molte ovvietà nonché di un registro tra il tragico e l’affettato che sembra voler riprendere lo spirito dello spiel tedesco, ossia della narrazione popolare anche giocosa. E l’alternarsi di timbri cupi e beffardamente buffoneschi annega la riflessione pensosa in un cicaleccio indistinto. Mentre il senso del racconto è in realtà tutto affidato alle scenografie, alle ambientazioni, alla fotografia. Che costituiscono l’aspetto più convincente del film, anche se così sottolineato e ripetuto da generare una sorta di sazietà da abuso di maniera.
Collocato in un ottocento nordico che però sembra retrodatato a un settecento più paesano che cittadino, il film è quasi totalmente girato in diagonale, secondo l’angolazione prospettica privilegiata dalle composizioni pittoriche di Tintoretto. E alterna spazi angusti e purulenti, vicoli come calli strettissime, atmosfere quasi verminose a improvvisi slarghi esterni, con rare deflagrazioni di luce. Immergendo ossessivamente lo spettatore in una atmosfera livida, declinata su tutte le gamme del verde – da quello delle muffe tipiche dei formaggi erborinati a quello argenteo delle foglie di ulivo. Così che i protagonisti sembrano muoversi sotto formalina, come reperti di un museo degli orrori, fatta salva la luminosa adolescente Margherita, cesellata nel pallore dorato di un Luca Cranach.
E se sotto il profilo visivo il film non presenta l’accumulo di invenzioni cinematografiche che caratterizza This must be the place bensì una sorta di somma di variazioni – anche stupende – sempre dello stesso punto di vista, la sua preziosità calcolata riduce l’insieme a un teatro di maschere. Come se Sokurov, consciamente o meno, avesse scelto di avvalorare l’aneddoto storico che volle Goethe affaccendato per sessant’anni intorno al suo Faust, in seguito alla visione dell’opera di Marlowe, rappresentata da marionette.
Un’operazione lunghissima, magnifica e frigida insieme, priva di emozioni, che pasticcia sia con la trama sia con gli assunti del grandissimo testo classico cui dichiara di ispirarsi: in virtù, forse, della necessità di completare la precedente trilogia dedicata a Hitler (Moloch,1999), Lenin (Toro, 2000), Hiroito (Il sole, 2005), secondo un tracciato programmatico che ne impoverisce lo slancio. Privilegiando un virtuosismo volto a disincarnare i fatti e le riflessioni a favore di un simbolismo universale più presupposto che raggiunto. Quasi una forma di video art che esalta la versatilità estetica del cinema, privandolo però di uno degli elementi portanti ,ossia il coinvolgimento narrativo.
Esaurito bene o male il suo compito, il critico si rilassa; e il suo pensiero va comprensivo ai compagni di visione in sala, escludendo che fossero spettatori entrati per assistere alle avventure di un Uomo ragno sotto copertura: ogni tanto, solo o in gruppo, qualcuno s’alzava nel buio, con l’accendino o il telefonino, per guadagnare anzitempo l’uscita. Come candeline di compleanno che, invece di spegnersi, abbandonassero la torta.
FAUST di Alexander Sokurov, Russia 2010, durata 134 minuti