THE ARTIST
Una storia muta di cinema e d’amore, che, per la sua stessa natura, non abbisogna di molte parole. Hollywood, 1927: lui è l’interprete famoso proprio delle pellicole con cartigli che stanno per tramontare definitivamente; lei una maschietta sgambettante – e sgomitante – ma dal cuore d’oro. Potrebbe essere sia pubblicità che colpo di fulmine. Ma prima che si ritrovino lui dovrà toccare il fondo,ostinandosi per orgoglio a non piegarsi alle esigenze del sonoro; lei,viceversa, farà una folgorante carriera tutta parlata. Entrambi si salveranno finalmente insieme, ricorrendo ad un compromesso “musicale”: il film con audio, ma danzato. Intorno,l’ambiente dell’epoca, il film che filma il film, e che riprende un pubblico che guarda, incomincia ad interagire, nonchè a decretare le fortune e le disgrazie dei propri beniamini.
Operazioni rétro di questo genere sono già state tentate più volte; basti qui ricordare il periodo di Jacques Tati e del suo monsieur Hulot (1932-1971) L’ultima follia di Mel Brooks(1976) o la più attuale mimica, quasi senza parole, di Mr.Bean. E non ci pare nemmeno un caso di esclusiva nostalgia per un mondo scomparso, vista l’attuale grande diffusione degli emoticon e il dilagante uso della segnaletica grafica, comprensibile a tutti, a prescindere dalle differenze linguistiche. Un modo di celebrare il silenzio senza rinunciare alla comprensione e alla comunicazione, quasi a compensare l’eccesso di rumore: affidato ad una superfetazione visiva del gesto che, nel gergo dell’epoca, veniva definita slapstick, ad identificare un tipo di espressività tutta basata sul linguaggio del corpo, derivata a sua volta dalla commedia dell’arte italiana. La quale, per la sua natura teatrale, aveva l’esigenza di enfatizzare al massimo la mimica attoriale. (Tra l’altro, il nome inglese deriva da battacio, strumento composto da due liste di legno che simulavano un bastone: battute insieme,consentivano di darsele di santa ragione producendo un grandissimo frastuono, salvaguardando nel contempo l’incolumità degli interpreti).
Queste però sono divagazioni filologiche a contorno. In realtà, il film è un’accurata ibridazione del modo di ripensare il cinema muto a favore di un pubblico che non l’ha praticato. La concezione scorre avanti e indietro nel tempo rispetto alle date che compaiono nei sottotitoli, a partire dalla fisicità degli stessi interpreti: lui lontanissimo sia da Chaplin che da Buster Keaton,ma piuttosto somigliante ad un compromesso tra i successivi Walter Pidgeon, Douglas Fairbanks e William Powell: baffo quasi dipinto a sottolineare il labbro assassino, tarchiatura un po’ pletorica accuratamente abbigliata da supercompleti accessoriati e spazzolatissimi, età indefinibile tra i 30 e i 50 anni. Lei deliziosa, ma decisamente poco raffrontabile con le dive ridisegnate dell’epoca; terzo attore comprimario un jack russell strappacuori, preso di peso dal celebre fox terrier Asta, coprotagonista del ciclo dell’Uomo ombra (1934-1947).
E se la fisionomia degli artisti appare postdatata, viceversa “classico” sembra il modo di concepire e raccontare la storia (tra Sennet e Griffith): senza esaltare troppo il ritmo, bensì diluendolo molto nella seconda parte – che forse necessitava di qualche taglio. Mentre dal punto di vista tecnico viene data molta enfasi sia alla soggettiva che alla semi-soggettiva, in cui spopolano i primi piani dei personaggi, lo spettatore è portato a vedere ciò che avviene intorno usufruendo dello stesso sguardo degli attori.
Un lavoro encomiabile, aggraziato ed insieme calcolatissimo, ammantato di un elegante ma disinvolto bianco e nero, godibile da un pubblico di tutte le età e di ogni estrazione o propensione culturale: raffinato e popolare, intimista ed estroverso, astuto e ruffiano quel tanto da operare degli slittamenti epocali senza disorientare l’immaginario collettivo (a proposito,cosa ricorda il fischio da pecoraio che la sinuosa interprete femminile emette,a dispetto di veletta e bon ton? Probabilmente l’indimenticato richiamo per tassinari di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany, 1961).
Buona la regia, debitamente slavata la storia, attentissima la tecnica, evidenti la cinefilia (e la cinofilia). Da delibare piacevolmente, magari risparmiandovi i titoli di coda, che abbiamo compulsato noi per conto vostro: l’innominato cagnetto da adottare subito si chiama – al secolo – Uggy, è il miglior attore di un film ben recitato (senza offesa per la Palma d’oro assegnata a Cannes al protagonista Jean Dujardin). E in questo caso non si può nemmeno dire che “gli manca solo la parola”.
THE ARTIST di Michel Hazanavicius, Francia 2011, durata 100 minuti