THE LADY
Birmania, 1947: un giovane padre racconta alla sua bambina di due anni la favola di un asiatico paese dell’oro, ben diverso da quello che lo vede fautore del ritorno degli inglesi, dopo l’invasione dei giapponesi. Prima di lasciarla per andare incontro al suo assassino, il generale Aung San le affonda un’orchidea fra i capelli, segnandone così il destino.
Nel 1988, più di quarant’anni dopo, sposata ad un professore inglese e madre a sua volta di due figli,quella stessa orfana fa ritorno nel suo paese per accudire la madre malata. Dopo l’eredità morale del padre, la morte lontana del marito, la crescita solitaria dei figli, i lunghi arresti domiciliari, un premio Nobel per la pace, la vittoria alle elezioni poi disconosciute dalla dittatura militare, la bambina-orfana-moglie-madre-vedova è ancora in quella Birmania che non ha più lasciato, sacrificando i suoi affetti e la sua stessa vita alla libertà della sua terra. Sempre con gli stessi fiori nei capelli, a sottolineare un’esile leggiadria esteriore tessuta intorno ad un indomito senso del dovere nei confronti della collettività.
Bellezza, fermezza esemplare, autoimmolazione: non c’è bisogno di scomodare Cvetan Todorov (che nei suoi libri ha esplorato a lungo sia la figura mitica dell’eroe che quella odierna dell’antieroe) per comprendere come Aung San Suu Kyi sia entrambe le cose, ossia vittima quotidiana, così come speranza per il suo popolo oltre che icona mondiale di luminosa ed umbratile grazia, intesa sia mondanamente che simbolicamente.
Difficili le biografie dei grandi personaggi, tanto più se viventi. Al regista francese Luc Besson il merito di illustrare la figura di questa martire del nostro tempo (nel senso etimologico di testimone), narrandone l’itinerario ad ulteriore edificazione dei contemporanei. Una precisa presa di posizione storiografica, la sua, che tuttavia nella sua generica diligenza poco concede sia al percorso spirituale della protagonista come alle vicende reali della Birmania. Perchè l’autore del film sceglie una via antica, quasi settecentesca, limitandosi ad inanellare alcuni fatti, mentre – almeno a partire dal secolo scorso – l’apporto della psicologia e della psicanalisi ha trasformato il genere biografico nel tentativo di un’interpretazione totale del soggetto, sia interiore che secolare, con eventuali risvolti o ambizioni saggistiche.
Niente di tutto questo ma piuttosto una sorta di kolossal lungo due ore e mezza, con qualche modesto ricorso alla tecnica del flashback, tutto affidato alla delicata fisicità di Michelle Yeong (già ne La tigre e il dragone, 2000 e in Memorie di una geisha, 2005)che, almeno per noi superficiali d’occidente, ha anche il pregio di ricalcare una approssimata somiglianza con la vera San. Per il resto, un continuo accavallarsi di visite dall’Inghilterra (rese di volta in volta ricattatoriamente possibili o impossibili) di telefonate interrotte, di lacrime rattenute, di solidarietà coniugali, di brutalità dittatoriali tanto anonime quanto approssimative, a configurare quegli antagonismi senza i quali l’eroe non potrebbe essere tale.
Difficile comprendere se le modalità stereotipate della narrazione siano dovute al rispetto del regista nei confronti del suo personaggio, per non cadere vittima di una sopraffazione o di un “plagio”. Oppure se l’intento di oggettività didascalica a favore del largo pubblico abbia trionfato sulle complessità di San. L’impressione (prima letteraria e poi cinematografica) è di un’epopea sempre sull’orlo di una commozione che resta tuttavia sospesa, trascinandosi fra ripetizioni che non offrono chiavi esegetiche nè sul piano umano nè sul contesto storico. Quasi che la leggendaria protagonista sia di per sè così significativa da risultare autoportante o autoesplicativa, senza bisogno di affondi, di interpretazioni, di cortocircuiti o di note a margine.
Un modo di raccontare piano, per episodi, che tenta di affidare la testimonianza del sacrificio e del dramma alle reciproche lontananze, senza che il personaggio possa intervenire, affidato ad un destino famigliare così fatalistico da risultare automatico, privo della vera sofferenza della scelta, o quanto meno del dubbio. Cosicchè nulla sappiamo della psiche di lei, del suo punto di vista storico, dei suoi progetti per il paese, della sua esperienza politica, se non qualche modesta frase, affidata a dei tazebao casalinghi e quasi occasionali.
Qui il regista appare infatti lontano dall’ispirazione di Nikita (1990) o di Léon (1994) bensì prossimo all’insulso Adèle e l’Enigma del Faraone (2010). E non basta la nobiltà dell’assunto a blasonare cinematograficamente una pellicola che risulta paradossalmente vecchia e pseudointimista proprio a fronte della modernità politica del personaggio, sia sotto il profilo drammaturgico, che in termini di scenografia e di fotografia.
Rimangono il pregio di aver messo sullo stesso piano dell’eroina anche l’eroe maschile impersonato dal marito (che viceversa nell’iconografia diffusa resta ingiustamente sullo sfondo) e lo stimolo ad approfondire un’emblematica vicenda umana e politica per conto proprio, magari facendo sentire a San la nostra vicinanza sul frequentatissimo profilo Facebook a lei intitolato, forse con maggior consapevolezza. Bene per l’appassionato coraggio del tema, maluccio per lo svolgimento cinematografico, che rischia addirittura di banalizzare anche la causa della stessa Birmania.
THE LADY di Luc Besson, Francia Gran Bretagna 2011, durata 145 minuti