PICCOLE BUGIE FRA AMICI
Due domande oziose: ci sarebbe stato l’Orlando furioso senza i poemi epici cavallereschi? E un bugiardo compulsivo nel deserto può ancora definirsi tale, visto che non ha modo di mentire a nessuno? Le risposte (altrettanto oziose) evidenziano come una qualsivoglia opera viva anche in funzione del suo rapporto di continuità o discontinuità rispetto al passato e come un giudizio, per essere tale, debba sempre affrontare la categoria della relatività. In Piccole bugie fra amici il legame con il passato è riferito sfacciatamente a Il grande freddo di Kasdan (1983) mentre il giudizio, oltre a tener conto dei precedenti, va anche ponderato in relazione alla contemporaneità, almeno quella che riguarda lo stato di salute della commedia francese. Più che discreto, a giudicare in funzione di due attuali opere fortunate e meritevoli – Quasi amici, Le donne del sesto piano – ma decisamente sottotono rispetto alla verve inventiva di un regista intimista ed estroverso come Canet.
Piazzati questi paletti, la pellicola coglie l’occasione di un incidente mortale per raccontarci (durante una degenza senza guarigione) la storia di un gruppo di amici in vacanza. Periodo di fittizia sospensione del quotidiana, e al tempo stesso occasione di ricordi, ripensamenti, rimozioni, bilanci. Mentre la vita sfugge in una corsia d’ospedale così come sulle sabbie di Cap Ferret, in Gironda.
Avvolto sostanzialmente intorno ad una bella colonna sonora, il film parte lentissimo senza dire granché, sfatando in questo senso il tono un po’ letterariamente pretenzioso dell’archetipo di Kasdan. Manca però la sua ispirata concisione, perchè qui si impiegano due ore e mezza esatte patrocinate dallo Slow food, che più slow non potrebbe essere, per poi accelerare proprio sul finale: la sceneggiatura ha il difetto prima dell’implicito, e poi dell’esplicito a tutti i costi, non tralasciando nessuno dei dettagli – anche maldestri – che si erano messi in cantiere fin dall’inizio, e su cui si poteva sorvolare senza nulla togliere all’assunto esistenziale dell’insieme. Che mal si raccorda con una durata da epopea mitica.
Benché siano passati trent’anni, poco sembra essersi spostato rispetto al paradigma di riferimento: il gruppo in questione è appena solo più eterogeneo e più vecchio, ossia in quella fase della vita in cui è ancora dato di sterzare in extremis, anche se la traiettoria sarà comunque influenzata dagli errori fin qui accumulati. Per il resto, convivialità, rappresentazioni di sé taciute o non corrispondenti al vero, ruoli resi ormai immutati dalla concrezione delle abitudini, piccole o grandi sorprese malgrado l’accumulo delle frequentazioni, nostalgie di un’età ormai lontana che ci si sforza di recuperare attraverso racconti più volte ripetuti, oppure mediante i filmini amatoriali che negli anni ottanta ancora non imperversavano.
Ma non è tanto la giovinezza che si rimpiange, quanto un’idea di sé lusingata da un futuro irresponsabile, lungo come un’autostrada e vasto come una prateria. Finché il continuum di chi vive non si infrange bruscamente contro la realtà della morte, con quell’ipocrisia sincera che coglie sempre tutti al momento del commiato, accantonando per un attimo insofferenze, egoismi e silenzi, prima coperti dall’esuberanza delle occasioni: le discoteche alla cocaina, le sbronze immemori, i romanzetti di chi ama chi o scopa con chi, e, infine, i rari momenti di verità che si presentano sempre all’alba, più puntuali dei primi tram.
Rimane in piedi una descrizione cattolicamente sopita rispetto alla maggior brutalità del protestantesimo americano, e un senso più ludico del raccontare, a tratti incerto tra il ritratto di gruppo (a tipizzazione anche macchiettistica) e i grandi temi del vivere e del morire, inframmezzati dall’amore e dall’amicizia. Nonché il tentativo astuto di riprendere una sorta di “cover” originale del passato, fingendo di riattualizzarla quando non addirittura di propinarla come nuova, per chi all’epoca non c’era.
Un film con un cast attoriale smaliziato e già famosissimo (mentre il Grande freddo aveva raccolto sconosciuti poi diventati celeberrimi) e con meriti e demeriti che si bilanciano, sullo sfondo della colpevole diluizione cui abbiamo fatto cenno. Ancora una volta, c’è il sospetto di trovarsi di fronte a un’astuta opera di genere traguardata sulla tipologia di utenti, dai trentenni ai cinquantenni e ai sessantenni che ancora ricordano. Sicché ci sembra che anche al cinema ci si stia muovendo come nella musica, in cui l’era di un rock certamente stanco continua ad accomunare più generazioni, come mai era successo nel passato. Con una trasmissione dello stesso testimone dai padri ai figli ai nipoti, senza che nulla di diverso, se non di nuovo, venga ormai mediamente espresso, a parte una rodata professionalità tecnica.
PICCOLE BUGIE FRA AMICI di Guillaume Canet, Francia 2010, durata 154 minuti