DETACHMENT- IL DISTACCO
________________________________________
Un film che per imperscrutabili vie riesce in modo sconcertante a raccontare non tanto la banalità del male, quanto la nausea del cuore a fronte della possibile inutilità del bene. E lo sconcerto nasce dall’accumulo di storie, personaggi e mezzi risaputi, alcuni dei quali in grado di stroncare qualsiasi pellicola.
Siamo in una scuolaccia pubblica americana,in cui allievi adolescenti e insegnanti consunti sembrano votati alle collisioni reciproche come ai naufragi individuali. La storia è testimoniata in prima persona da un magnifico Adrien Brody che, con quell’aria sghemba da infiltrato è uno dei pilastri dello spettacolo. Giovane, supplente, massacrato dai precedenti di una vita che gli consegna un nonno demente come unico bagaglio di un torbido passato, Brody ha accumulato tutte le deprivazioni e le durezze che dovrebbero consentirgli di far fronte ai vuoti feroci e ai disinteressi di vite già votate allo scacco. E ci prova nonostante tutto, consegnandosi filosoficamente, senza riserve, alla sconfitta, di individuo come di maestro.
Accanto a lui, professori sempre sull’orlo di una crisi di nervi; buona fede, illusioni e cinismi che ora si scontrano, ora si barcamenano; ragazze grasse che si suicidano e prostitute bambine che si redimono. Intorno, il ricorso ad ogni possibile déjà vu: la scuola degli insegnanti e degli allievi come metafora di vita, già illustrata in tante di quelle circostanze che è perfino inutile tentare un elenco.
Quindicenni che si innamorano in modo più o meno sublimato della figura dell’uomo-padre-compagno-amante-amico-mentore. Una società che ha perso ogni senso del confine, del rispetto, della responsabilità ma che ancora spera di essere salvata mediante scoraggiate abnegazioni solitarie. Una sceneggiatura e una regia che non arretrano di fronte ai più vieti luoghi comuni come al dispiego di mezzi tanto abusati quanto ostici: spezzoni documentaristici, voci che commentano fuori campo, flash back progressivi tra l’onirico e il confuso, fotografie magrittiane, location sia prosaiche che metafisiche, siparietti e intermezzi come in Babe, maialino coraggioso (1995) o in Rango (2011). Questi ultimi in guisa di animazioni infantili, tracciate sulla lavagna della scuola. E poi citazioni letterarie di ogni tipo, da Camus a Poe, con impronte evidenti sia dell’Idiota di Dostoevskij come delle saghe famigliari di John Fante, ma svuotate di ogni vitalità umoristica. Insomma, di che far rabbrividire anche un armadillo…
Eppure il film non solo si lascia vedere, ma a tratti emoziona, comunicando proprio mediante quei cortocircuiti intrasmissibili di cui ognuno ha un’esperienza solitaria: quando di colpo, di fronte ad un semaforo, nella toilette di un autogrill, o guardando un pavimento mentre si fa una coda, si viene colti da una manifestazione di senso, tra ragione e viscere. Dura per lo spazio assorto di un attimo, è come il bagliore rifratto da uno specchio, eppure lascia il dubbio di aver attinto a un diverso grado di conoscenza, cui non si sa dare un nome. E che si può scegliere di approfondire come lasciarlo alle spalle.
Cercando di capire la forza di questo film, ci sembra che si possa riassumere in questi termini: l’aver saputo corredare il luogo comune romanzesco di tutto il ciarpame noto che circonda il quotidiano, senza fare sconti né sul versante del plot né sul versante dell’inessenziale come del superfluo, in modo tale da coniugare il fascino del racconto con la riconoscibilità di ogni esperienza qualsiasi. L’aver saputo imprimere un ritmo non solo visivo, ma più generalmente sensoriale che riesce a procedere per formule esplicative – sia realistiche che metaforiche – universalmente intuibili, ibridando forma e contenuto in un unico amalgama. L’aver impresso una cifra personale sfiorando, senza mai caderci dentro, tutte le antiche retoriche riassumibili nella famosa poesia “O capitano, mio capitano!” di Walt Whitman, che ha imperversato a partire da L’attimo fuggente (1989). Senza alcuna intenzione edificante, bensì mescolando il bene e il male con ogni mezzo, secondo uno scientifico e fatalistico disordine, come nella vita.
Che, secondo quanto ci raccomandavano a scuola, qui il regista Tony Kaye riesce fascinosamente a rielaborare “con parole sue”, malgrado un po’ di raucedine e qualche balbettio.
DETACHMENT –IL DISTACCO di Tony Kaye, Usa 2011 , durata 97 minuti