IL CAMMINO PER SANTIAGO
Ci sono i figli d’arte, i figli di papà, i figli di nessuno, quelli di buona donna… Nella fattispecie, nulla sappiamo della madre del regista-attore-sceneggiatore Emilio Estevez, mentre il padre è il celebre Martin Sheen, qui protagonista della pellicola e quindi, per la proprietà transitiva, anche babbo d’arte.
Pellicola che è altresì dedicata al nonno Estevez, e dunque rappresenta un affare di famiglia addirittura doppio, perchè il film è imperniato su un oftalmologo americano che, giunto nell’età in cui l’unico viaggio possibile sembra essere quello sulle macchinette elettriche dei campi da golf, all’improvviso è costretto a lasciare le sue abitudini borghesi per andare a recuperare la salma del figlio, disperso sui Pirenei a causa di una tempesta nei pressi di Roncisvalle, durante una personale reinterpretazione dell’antichissimo pellegrinaggio a San Giacomo di Compostela.
E qui bisogna dire che la sceneggiatura e la regia sono abili ad accennare a tutte le fascinose mitologie storico-religiose di un tempo, così come ad illuminare i moventi moderni di un percorso millenario di contrizione e di fede, scartandoli ad uno ad uno senza peraltro lasciarli cadere; infine ad adombrare la solita metafora del viaggio come traiettoria di vita, evitando di farne una raccolta di foto geografiche o eroiche per gli amici rimasti a casa. Ma anche omettendo di contrapporre fede e agnosticismo a favore di un sentimento più pragmaticamente umano: quello delle motivazioni bizzarre che celano appena il pudore di una diversa ricerca di senso, che si lascia permeare dalla simbologia religiosa così come da piccoli atti turistico-devozionali, spesso vissuti come un’invocazione a un non meglio precisato “altrove”, in bilico tra le superstizioni contemporanee e le possibili contaminazioni di una quasi inconsapevole attesa spirituale.
Si snoda così un classico ma inusitato percorso on the road, il cui fascino è rappresentato da un doppio registro: il progressivo avvicinarsi fisico e poi empatico di un bizzarro gruppetto di smandrappati, abbozzati quel tanto da dare loro verosimiglianza di personaggi, ma al tempo stesso concepiti come metafora salvifica dell’uscire da sé attraverso un ritrovato aprirsi all’altro. Delineati inoltre in modo tale che le occasionalità contingenti, le contrapposizioni e i pregressi critici fungano abilmente anche come pretesto per far sì che l’azione segua il suo corso, e le tappe del tragitto si snodino sino alla catarsi finale.
Intorno, un paesaggio mutevole e magnifico fatto di pascoli e rupi, di villaggi e cattedrali, a tratti fotografato con gli occhi del pittore Alfred Sisley, ma senza nessuna smania agiografica, perché si tratta di una fisicità non tanto estetica, quanto sensorialmente evocativa: il risuonare sodo dei passi sulla strada, i risvegli nitidi di albe silenziose negli ostelli o nei rifugi d’occasione, il profumo d’erba dei crepuscoli intorno ai deschi improvvisati, il continuo scambio dell’augurio “buen camino”a rendere comunità complice un branco di sconosciuti che si sfiorano per un attimo, come tangenti al cerchio.
Peccato che anche questo film non sappia rinunciare a nessuna suggestione, dilatando la sua durata oltre le necessità espressive della resa narrativa ed artistica: come il recentissimo C’era una volta l’Anatolia e molti altri titoli degli ultimi tempi, avrebbe necessitato di una forbice attenta che sfoltisse il superfluo a salvaguardia dell’essenziale. E, a questo proposito, ci sarebbe da riflettere su queste reiterate scelte di durata proprio in una civiltà sempre più distratta da una fretta inefficiente ma affollata, che comporta inesorabilmente una certa labilità dell’attenzione. Forse un peccato narcisistico degli autori quando avvertono che l’ispirazione regge, oppure una libidine mercantilistica da accumulo.
In ogni caso, un’opera troppo lunga, che riesce però a nobilitare molti possibili luoghi comuni e a mantenersi miracolosamente in piedi nonostante il continuo incombere di pericolosissimi smottamenti; e che, grazie anche all’interpretazioni degli attori, sa trasmettere sia il senso della solitudine come quello dello stare insieme, con tratti commossi e annotazioni anche divertenti, ben accompagnati da un’intonata colonna sonora, dietro cui si avverte una lettura sociologica e umanistica di una certa finezza. Che probabilmente teme di non essere abbastanza chiara, e allora calca la mano su inutili ridondanze illustrative.
Alla fine, è possibile che molti spettatori lascino la sala accarezzando la possibilità teorica di offrirsi una parentesi non meramente vacanziera, o di dare una sterzata ai loro percorsi, pur avendo in mente la parafrasi di una poesia di Antonio Machado, che ha altresì lungamente accompagnato il compositore Luigi Nono: “Caminantes, no hay caminos. Hay que caminar”, “Viandanti, non ci sono strade. C’è da camminare”. Che è anche l’assunto ultimo del film, sotto specie di eredità a ritroso da parte del figlio nei confronti del padre: “Le vite non si scelgono, si possono solo vivere”
IL CAMMINO PER SANTIAGO di Emilio Estevez, Usa 2010 , durata123 minuti