BELLA ADDORMENTATA
Il grande potere significante nella presenza (o assenza) di un semplice articolo determinativo: La bella addormentata era quel personaggio fiabesco che viveva sottotraccia in attesa che un cavaliere – e magari berlusconiano – la riportasse con un bacio ai sogni della vita attiva; Bella addormentata, viceversa, non è tanto un personaggio, quanto una condizione, un modo sospeso di essere inerme, in balia di fedi “calcistiche” contrapposte e non dialoganti, perché rigide come tutte le verità possedute una volta per sempre.
In questo senso, Marco Bellocchio non parla direttamente della vicenda di Eluana Englaro, ma la affida con pudore e con precisione all’onnipresenza della cronaca televisiva, che fa da sottofondo alle storie incaricate di incarnarne esemplarmente i risvolti, come tante parabole incrociate. Che è uno dei pregi ma al tempo stesso il limite drammaturgico del film.
Il girare intorno a questa figura dolorosa della contemporaneità, riportando soltanto le contrapposizioni ideologiche del contesto (fra cui spicca per raccapricciante oscenità la considerazione dell’ex Presidente del Consiglio, che sostanzia il valore di un corpo inerte con la sua residua possibilità di figliare…) può essere tanto un atto civile e evangelico di rispetto, quanto una impossibilità di misurarsi con il non dicibile. Mentre le sue diverse declinazioni si annacquano via via nella forzata necessità del teorema esemplificativo, con momenti di stanchezza tipici dei drammi che divengono didascalici.
Certo, come tutti i casi che si dovrebbero esclusivamente affidare alla determinazione dei singoli soggetti, è plausibile che i punti di vista siano sfaccettati e i racconti li rappresentino con un certo forzato schematismo. Ma mentre quello del senatore del Pdl, interpretato da Toni Servillo e dalla figlia, Alba Rohrwacher, ha (esclusa forse l’appartenenza partitica) una sua credibilità severa e delicata, cui sono affidati i momenti migliori del film, quello dell’attrice Isabelle Huppert, del medico Piergiorgio Bellocchio figlio e della drogata Maya Sansa suonano a tratti un po’ goffi , rigidi e ridondanti, contribuendo alla lentezza ondivaga del tutto, fra momenti tesi e rilassamenti poco convicenti.
L’età porta consiglio, ma qualche residuo arruffamento dell’indignato e sovversivo I pugni in tasca (1965) qui ci sarebbe stato bene, conferendo vigore a un argomento forte trattato viceversa con una forma di timida cautela alla ricerca di un impossibile equilibrio. Tanto che le cose migliori sono nei dettagli, come ad esempio la tirata psico-politica sui senatori nella sauna, affidata ad un bravissimo Roberto Herlitzka, psichiatra e parlamentare tra il dolente e il cinico, con una fede precisa solo nei farmaci. Inutili altre modalità di cura per una classe che non pensa con la testa ma mediante un Capo.
Di fronte al tema universale dell’eutanasia, o comunque del delicato confine fra la vita e la non vita, il regista infatti sembra ritrarsi, adottando un compromesso che non esime la pellicola da una parte di teorizzazione, seppur accennata fra le righe, e una estroflessione mediante la presunta emblematicità delle storie scelte. Che sono in qualche modo troppe e al tempo stesso non abbastanza rappresentative, a partire dalla scrittura incerta del copione, decisamente inferiore alla buona resa scenografica e fotografica. Come se l’unica possibilità di esprime la solitudine civile e morale di quell’”eroe martire” del nostro tempo che è Beppino Englaro, nonché la schiacciante presenza di Eluana (paradossalmente riempita dalla sua tragica assenza) consistesse nell’affastellare exempla un po’ fumettistici, mediando qua e là il non mediabile, facendo forzatamente tornare i conti di ogni storia.
Sembra talvolta che Bellocchio, regista originale e di sicuro talento, abbia avuto in dono anche il destino dell’imperfezione: i suoi film rimangono spesso come delle parentesi aperte che non riescono mai a chiudersi compiutamente. Qui siamo lontani anche dalle potenti suggestioni visive di un film a tratti carente quale Vincere (2009) così come dalla sotterranea ma durevole commozione fin troppo solipsistica di Sorelle Mai (2010). E una riprova potrebbe essere il giudizio di uno spettatore straniero, cui certamente sfugge la miseria dell’italica cronaca quotidiana. Nel senso che sembra essere un film concepito dagli e per gli schermi televisivi italiani, in quanto incerto nella paragmaticità drammatica ed inventiva che avrebbe potuto renderlo senza confini, ossia universalmente classico ed apprezzabile come un dramma di Shakespeare, oltre l’ibridazione della cronaca con la fiction.
BELLA ADDORMENTATA di Marco Bellocchio, Italia 2012, durata 110 minuti