APPARTAMENTO AD ATENE
La ragione dei più forti non ha bisogno di ragioni, e l’arrendevolezza dei più deboli nemmeno: superior stabat lupus. Tuttavia, dietro e all’interno dei ruoli che si fondano sulla mera sopraffazione, si estendono le vicende delle vittime e dei carnefici, che a loro volta si incrociano con la cultura dominante delle rispettive epoche, sicché tutto il film viene basato sul discrimine che corre tra il privato e la Storia. Discrimine già diversamente (e mirabilmente) adombrato ne Il silenzio del mare di Vercors (1942) e ripreso in Appartamento ad Atene appena tre anni dopo da un eccentrico scrittore americano come Glenway Wescott, e pubblicato in Italia da Adelphi solo nel 2003.
Siamo nella capitale greca, la narrazione si riferisce al 1942 ma si apre su una frase di drammatica attualità: la Grecia ha scritto la Storia dei popoli e – allora come ora – la Germania ne prosegue la dettatura. L’osservazione è di Kalter, un maggiore tedesco interpretato dallo stesso cattivo di Bastardi senza gloria (2009), Richard Sammel, la cui scelta fisica è quasi scontata. Di minacciosa, distillata arianità, il militare requisisce l’abitazione di un mite ex-editore di libri scolastici e della sua famiglia, e vi si insedia da padrone-aguzzino. Poi, in seguito ad una sua temporanea assenza, le cose cambieranno e la vicenda subirà un triplo ribaltamento, ad animare e incupire ulteriormente un classico e claustrofobico film da camera, prevalentemente girato in un appartamento, mentre di Atene ci sono solo degli ingenui scorci, più da quinta teatrale che da cartolina.
I ruoli delle interpreti femminili del film si discostano parecchio da quelli del romanzo: la madre – Laura Morante – viene esaltata dagli sceneggiatori, mentre l’autore ne aveva fatto una donna querula e insignificante; anche quello della figlia adolescente si differenzia dall’originale, che le attribuiva una carnalità offerta, resa stolida da un deficit mentale, tale da imprimere un risvolto di ulteriore ambiguità agli eventi. Invece le psicologie dei maschi vengono rispettate, con il padre che si piega quasi fino alla complicità, mentre il figlio dodicenne si ribella con la sotterranea, infantile veemenza di chi sa valutare solo gli slanci ideali e non le forze in campo.
Il sintetico raffronto tra le due opere viene qui accennato non tanto per un inutile paragone, quanto perché le scelte perpetrate dal regista influenzano profondamente la narrazione: il libro fonda la sua risonanza evocativa sull’ossessivo rapporto mentale che si crea fra gli invasi e l’invasore, mentre il linguaggio filmico è costretto a visualizzare i pensieri, rendendo più simmetrici, più bruschi – o meno plausibili – i vari sovvertimenti della vicenda. A Ruggero Di Paola, qui alla sua opera prima, rimane la traduzione della parola in immagini e situazioni, a cominciare dal decaduto decoro di un appartamento medio borghese dell’epoca, in cui non a caso sembra campeggiare una possibile copia de L’Isola dei morti dipinta da Arnold Bocklin.
Quindi il film può solo insistere sull’odiosa distruzione di un’intimità famigliare, già intristita dalla guerra, e sull’asservimento a una promiscuità oscena che ne aggrava lo spossessamento, giocando – fino alla metà – sull’umiliazione dei particolari. Nemmeno l’assenza del carnefice consente la più piccola deroga ad una routine di dipendenza psicologica e di servizio coatto. L’imperativo categorico delle regole imposte non è trasgredibile, e ogni variante successivamente apportata dal nazista genera addirittura preoccupazione: perché non mangia più come un tempo, perché è meno sprezzante, perché ci sono dei parallelismi nella vita dei due uomini, perché una fede politica non può essere messa in dubbio, neppure quando declina, mentre ogni intima ragione di vita viene meno? Infine, perché certe simmetrie si protraggono, come le colpe, sino alla fine?
Il mistero dei grandi disastri storici dipende tutto dall’insondabile metamorfosi di uomini che, in altre circostanze, sarebbero stati completamente diversi. Poi le generazioni passano, quelle successive – e risparmiate – dimenticano o, al più, si chiedono come certe cose siano potute succedere, per poi magari ripeterle, sotto mutate forme… Il film non dà risposte: descrive gli effetti di una guerra e di una dittatura dall’anta socchiusa di un armadio, e alla sola quotidianità lascia il compito di rappresentare il bene come il male. Per approssimazioni successive, talune azzeccate, altre più incerte, fino all’epilogo che chiude romanzescamente il teorema.
Ricercata e diligente, anche questa opera pluripremiata denota l’ambizione professionale e il puntuale subordinamento delle idee e delle immagini, all’imperativo della trama da parte di molti registi nostrani. Non ha niente di deplorevole, benché ci siano parecchie rigidità e alcune ingenuità, eppure palpita in superficie, senza restituirci l’emozionante atmosfera della scrittura. Anche se ambientato durante l’ultima guerra,è apparentabile in meglio ai recentissimi Gli equilibristi e Il rosso e il blu:.tutti ben confezionati, di adeguato intrattenimento, filologicamente corretti, eppure scarsi di pathos, di slanci, di invenzioni vere, di cortocircuiti di significati e di immagini.
Verrebbe voglia di spettinarne gli autori, di togliergli la divisa d’ordinanza, di strappargli il manuale, fargli una respirazione bocca a bocca ,e poi mandarli finalmente in libera uscita per renderli meno disciplinatamente conformisti, persino sperimentali e irregolari, purché un po’ più arrischiati e talentuosi.
APPARTAMENTO AD ATENE di Ruggero Di Paola, Italia 2011, duarata 95 minuti