THE MASTER
Dopo aver visto durante le vacanze due film diversamente dignitosi o più che dignitosi (La regola del silenzio di Robert Redford e La miglior offerta di Giuseppe Tornatore) ma entrambi annacquati dal bisogno di inserire una trama a tutti costi che fa da comune debolezza, ecco l’interessante caso di The master, con cui inauguriamo l’anno nuovo.
Caso interessante perché pluriosannato, eppure con parecchi difetti: lungo, noioso, tetro, a tratti decisamente sgradevole, nonché nettamente in contrasto con i primi due di cui abbiamo parlato. Qui infatti la trama non c’è, nel senso che non c’è la preoccupazione di un vero e compiuto plot, con la conseguente necessità di incastrare e far funzionare anche forzosamente degli ingranaggi che, al contrario, vengono sparpagliati per due ore e mezzo come in un quadro di Salvador Dalì.
All’inizio si affacciano alla mente due romanzi splendidi e inapparentabili (The Bostonians di Henry James e Una forma di vita di Amélie Nothomb) ma la suggestione è da abbandonare rapidamente, poiché ci si ritrova presto in una sorta di disgregazione del precedente film di Anderson, il melodrammatico, lineare e hollywoodiano Il petroliere (2007) nobilitato dalla prova di due mostri sacri, ossia gli attori Daniel Day-Lewis e Paul Dano – così come la destrutturazione di The master ruota tutta intorno all’esibizione funambolica di Joaquin Phoenix e di Philip Seymour Hoffman.
Sono gli anni cinquanta, la seconda guerra mondiale è finita e il soldato Phoenix, già destabilizzato da tare psichiche famigliari, si ritrova a vivere una vita che non gli appartiene. Il caso (che viceversa verrà spacciato come una sorta di predestinazione) gli fa incontrare una specie di guru, santone o imbonitore che soffre specularmente della sua stessa mancanza di un centro di gravità qualsiasi. Ma mentre il primo da lupo si fa momentaneamente cane e diventa servo, salvo poi riprendere il largo, l’altro distilla e cesella i suoi numerosi velleitarismi da autodidatta, li elabora, suda, seduce e fa “carriera”, in una sempiterna improvvisazione che passa tra due imperativi “terapeutici” opposti: ricordare il passato, immaginare il futuro.
Che la società odierna continui medievalmente a pullulare di sette in omaggio ai numerosissimi bipedi che, non sopportando la fragilità e la finitezza della vita, anelano disperatamente a farsi raggirare, è un fatto certo: le cronache formicolano di casi, uno fra tutti quello di Scientology e del suo mitico fondatore Ron Hubbard, cui il regista sembrerebbe essersi ispirato. Tuttavia a Paul Thomas Anderson non cale per nulla il tratto sociologico, l’atmosfera d’ambiente, l’indagine più o meno spirituale, l’avidità di lucro, la dabbenaggine degli adepti. Gli episodi si ripetono, le figure al contorno sono relativamente sfocate, l’impianto teorico-filosofico è fatto di quattro frasi raffazzonate, gli esperimenti sono puerili e non tanto per ingenuità autoriale, quanto per illustrare ambiziosamente due caratteri petrosi ma dai confini incerti e debordanti.
Abbandonati i più convincenti panni di Johnny Cash in Quando l’amore brucia l’anima (2006) Phoenix si sdilinquisce come nei momenti particolarmente gigioneschi di Sean Penn, fino ad anchilosarsi in una convessità scheletrica da quasi menomato, tra aggrottamenti di labbra, schiocchi di occhi, contorcimenti di rughe… Più equilibrato, elegante e padrone della parte Philip Seymour Hoffman che ancora una volta centra l’obiettivo prestando le sue forme apoplettiche al vero fulcro del film. Ne risulta un protagonista indimenticabile, in grado di colmare tutte le falle della sceneggiatura con la bonomia rabbiosa, incompiutamente ambigua e vulnerabile della sua perentoria fisicità quasi albina.
Tuttavia questa encomiabile prova non basta per addobbare The master come un albero di Natale, riempiendolo di stelle e di palle. L’operazione rimane tanto ambiziosa quanto incerta, quasi che la sola forza dell’argomento o dell’accoppiata di attori risultasse autoreggente come le calze. La sceneggiatura difetta e si protrae, la scenografia è ambivalente, la commozione latita, lo stupore estetico rimane spesso confinato nella fotografia di lusso. Ci sono poche vibrazioni autentiche, e il film gira parecchio a vuoto su se stesso, tra calcoli accurati e corrività presuntuose.
La sindrome che abbiamo definita come una sorta di disgregazione de Il petroliere annaspa e incespica anche sui flash back e cerca di interrogarsi su una sorta di platonica empatia d’elezione anche mediante espedienti d’accatto. Un esempio fra tutti: il viaggio di Phoenix dagli Usa all’Inghilterra viene scontatamente riassunto da una inquadratura di onde, così come nei film degli anni cinquanta il congiungimento carnale si riduceva puntualmente alle fiamme smaniose di un simbolico fuoco. E chi sapeva capire, capiva; se no, se ne ristava perplesso a riscaldarsi le mani.
THE MASTER ,di Paul Thomas Enderson, Usa 2012, durata 137 minuti