IL GRANDE GATSBY
“Attraversammo un atrio spazioso e passammo in un salone luminoso color rosa, legato fragilmente alla casa dalle porte-finestre. Le finestre erano socchiuse e scintillavano bianche contro l’erba fresca che pareva spingersi sino in casa. Nella stanza spirava un vento leggero, gonfiava le tende spingendone un’estremità in dentro e l’altra in fuori come se fossero bandiere pallide, torcendole verso il soffitto ornato come una torta nuziale e poi drappeggiandole sul tappeto color vino e stendendo su questo un’ombra come fa il vento sul mare. . . nella stanza un divano enorme . . . . su cui erano posate due giovani donne. . . . vestite di bianco, con le gonne fluttuanti.”
Così Francis Scott Fitzgerald ne Il grande Gatsby, preciso, lieve, architettonico e fotografico insieme, già perfettamente cinematografico eppure simbolicamente allusivo: le donne in sintonia con l’arredo, anzi, suppellettili anch’esse mosse dalla medesima brezza che anima le tende, instabili ospiti di un amoroso tabernacolo solipsistico dedicato da un romantico parvenu ad una donna di emaciati egoismi che non lo merita e per cui perderà la vita.
Dopo quattro precedenti trasposizioni cinematografiche, che cosa rimane di tanta grazia a quasi un secolo di distanza dal romanzo? Praticamente nulla, se non l’ansia di sovraesplicitare una trama già trasparente, orpellandola di parentesi chiosatorie verbose ed inutili, ad uso di spettatori sminuiti; pochi stracchi velari di dimensioni spropositate, appesi goffamente da maestranze in pausa pranzo; l’insistito gioco degli sguardi che dall’occhiuto tabellone pubblicitario vicino alla fatale pompa di benzina si trasmette al protagonista che a sua volta spia dalle finestre il tramite del suo sogno, ossia il vicino narrante la vicenda, e nel contempo aspetta con emozione adolescenziale che il raggio verde del faro al di là della baia lo ricongiunga a Daisy.
Una speranza pervicacemente alimentata e doppiamente delusa, sia da quel destino che sconsiglia agli umili di origine ma ardenti di cuore di mescolarsi ad élites di inattingibile aridità, sia da un regista che ama le contaminazioni baracconesche e le sovraesposizioni musicali. Senza che la colonna sonora abbia la funzione vivificante della Marie Antoinette di Sofia Coppola e che il nitore di un’epoca elegante sottolinei la storia, avvolgendola nei lini preziosi di una opulenza materiale che si propone di diventare pienezza dei sentimenti.
Baz Lurman è un cineasta sopravvalutato , che pecca di presunzione ad insaputa del pubblico, e che probabilmente ritiene di fare cassetta cimentandosi con una classica vicenda di amore e di morte che comunque tutti hanno in qualche modo orecchiato. Solo che, invece di osare il meraviglioso coraggio reinventivo di Joe Wright nell’ultimo Anna Karenina rimane a metà del guado, pasticciando la trama senza essere propriamente infedele e affidando il colpo di gran cassa all’eccitazione degli ambienti e dei costumi, secondo un carnevale mortuario di imbastardita filologia, esente da valori aggiunti.
Il Grande Gatsby è il chiaro romanzo di un’estate in cui, come in tutte le estati, il senso della
vita tende a sospendersi e ad addensarsi, per poi ritrarsi ai primi brividi di settembre, che in questo caso si incupiscono in una tripla tragedia senza inverni. Il film invece è scuro, mortuario e di cattivo o illegittimo gusto dall’inizio alla fine, nonchè gravato da due attori protagonisti privi della magia fisica di Robert Redford e di Mia Farrow, interpreti della già mediocre versione del 1974, eppure molto più rispettosa delle atmosfere e dei contesti del libro, determinanti e protagonisti anch’essi alla pari dei personaggi.
Di Caprio è un bravo attore che vede impallidire la sua venustà a causa di metafisici gonfiori non ancora espliciti e non è a suo agio in costumi che lo fanno sembrare la caricatura di se stesso; Carey Mulligan ha delle guanciotte da contadina artificialmente ritinte e per l’idea di lei non molti concepirebbero la propria vita come un monumento di imperitura dedizione. Gli esterni sono anch’essi frutto di un malinteso senso dell’originalità e oscillano tra una sorta di straniata Gotham City e il castello di re Artù disegnato da Disney, a rappresentare un ulteriore elemento di arbitrario fraintendimento del romanzo. E si potrebbe continuare con l’assenza di una qualsivoglia emozione, se solo l’elenco dei difetti non aggiungesse ulteriore noia al tedio depressivo di un film supponente, magniloquente eppure dimesso ma, soprattutto, di una inutilità pedissequa e irritante, paragonabile a quella dei peli superflui in alta stagione.
IL GRANDE GATSBY di Batz Lurman,Usa 2013, durata 142 minuti