Film

IL FONDAMENTALISTA RILUTTANTE

“I giovani non sono bravi mercenari, hanno bisogno di una causa”. Peccato che il mondo sia un grande sopruso, e che ogni parte abbia le sue ragioni, ma chieda a ciascuno di schierarsi, tenendo presenti quei “fondamentali” consacrati che valgono tanto per gli analisti finanziari abituati a valutare le potenzialità di un’azienda, quanto per quei mondi religiosi che non ammettono la laicità della politica, o comunque assimilano la ragion di Stato a quella di Dio.
Mira Nair, regista e sceneggiatrice indiana che vive a New York (dunque partecipe di due universi culturalmente lontani) consegna al pubblico il suo film più difficile, incupendo l’incantevole ventaglio cromatico degli zafferani violetti e oro di Monsoon wedding (2001) ma mantenendo ben dritta la barra di un racconto complesso, giocato su plurime, laceranti dicotomie che sono la chiave strutturale e spirituale del film.

Due sono i duellanti che si fronteggiano in tempo reale, due i momenti storici illustrati, due- a loro volta scisse a metà – le anime in gioco, due gli amanti di una coppia destinata a non diventare tale, due le ideologie politiche che non si ascoltano ma si combattono, due le geografie determinate ancora oggi da quell’attentato alle Torri gemelle che ha fratturato gli inizi del nuovo secolo in un prima e un dopo. Lahore, 2011: una cerimonia cupa, soffocata dai toni del magenta e del blu pavone introduce la figura del giovane Changez Khan, professore presso la locale università, adorato dagli studenti che si ribellano alle interferenze statunitensi, a loro volta strumentalizzati da interessi fondamentalisti che hanno portato al rapimento di un docente americano. Un suo connazionale e altrettanto giovane giornalista propone a Changez una lunga intervista, con uno scopo diverso da quello dichiarato. Mentre intorno si svolgono le umili attività di un luogo di incontro e di ristoro , l’atmosfera si addensa sotto forma di un conflitto diplomatico internazionale, in cui gli organismi polizieschi e spionistici fanno quello che normalmente fanno, intorbidando le acque.

Anche se l’atmosfera è quello di un thriller dagli stilemi estetici di un esotismo suggestivamente calibrato, la storia è viceversa imperniata su fatti individuali che accumulano uno dopo l’altro i tasselli della formazione e della divisione di una coscienza, sensibile sia alla ragione che ai sentimenti: Changez è un pakistano figlio della sua terra, ma debitore verso un’America che ama, e che lo proietta ai vertici del suo mestiere di consulente economico, finchè un editore fallito di Istanbul gli racconta la storia dei giannizzeri, giovani cristiani fatti prigionieri e poi allevati come difesa armata del sultano, contro le loro stesse origini….

L’argomento è arduo e tocca sensibilità plurime e contrapposte, a maggior ragione se sviluppato dalla regista di un paese in continuo ed aspro conflitto con il Pakistan, che già nel film a episodi 11.09.01 si espose su un argomento analogo. Ma quello che conta in un film è il modo di svolgere un tema senza dimenticare che si tratta non tanto di un dettato di mediazione, quanto, soprattutto , di uno spettacolo. E qui Nair ricorre a tutta la sua intima esperienza , trasformando in intrigante intrattenimento il più poetico e drammatico romanzo omonimo di Mohsin Amid, pubblicato da Einaudi nel 2007.

La trans-regionalità di un oriente” antico” e di un occidente “moderno” amplifica l’atmosfera arricchendola di una patinatura mai agiografica e tutti i luoghi comuni dell’innocenza violata da una diversità razziale corroborano la trama senza banalizzarla: gli ingredienti sono tipici e già catalogati nelle storie di genere, eppure si riconfigurano con una loro specifica originalità grazie ad una visione non manichea, ma interiormente sofferta e partecipata. Dialoghi, snodi, location, tempi, flash back, montaggio, fotografia, interpretazione sono tecnicamente molto professionali, ma l’alone di interesse che cattura lo spettatore e gli permane addosso ha una sua dimensione olistica:la somma delle parti non corrisponde esattamente al valore complessivo dell’insieme. C’è qualche cosa di più che è ascrivibile al concetto di cinema come narrazione , e che si annida negli interstizi dell’esplicito attraverso i singoli, sistemici dettagli. Non diversamente, in questo senso, dal già citato Monsoon Wedding, rutilante estasi di movimenti e di colori, che all’interno racchiudeva nostalgie e angosce , fino alla configurazione di un accadimento inconfessabile.

Non capita frequentemente, negli ultimi tempi, di imbattersi in opere che non siano annacquate da un ingiustificato eccesso di durata. Anche Il fondamentalista riluttante sconta in parte questo difetto, e non è nemmeno il solo: ci sono qua e là semplificazioni , ridondanze e schematismi. Però il tutto è riscattato da uno svolgimento che in questo caso contempla l’estensione temporale come una necessità, senza peraltro sfinire lo spettatore, anzi, tenendolo ben desto sino alla fine. Con buona pace di tutte le possibili sovrastrutture, tipiche di argomentazioni eminentemente filosofoco-politiche, dal partigian salottiero al militante.

IL FONDAMENTALISTA RILUTTANTE di Mira Nair , Usa Gran Bretagna Quatar 2012, durata 130 minuti

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Marinella Doriguzzi Bozzo

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