SALVO
L’inizio è di ammirevole potenza: una cortina azzurra che fluttua, a separare il fuori dal dentro, il sonno dalla veglia, l’alba dal mare. Poi, misere pietre a calce che si rastremano attorno ad una branda in cui dorme un uomo nudo, la schiena con una goccia di sudore come la zanzara dei fratelli Cohen (Barton Fink,1991). A seguire, una macchina, un bollettino meteorologico su un inverno palermitano con quaranta gradi, un polso con tanto di protesi orologistica d’oro massiccio e un agguato malavitoso di geometria euclidea, tale da iscriversi nella storia del cinema di genere. Infine, la cifra stilistica dell’opera, che separa un villino avvolto da ossessive canzonette italiane (ad ammazzare un tempo di calure intime e assedianti) dai labirinti di un interno asfittico fatto di scale, in cui si deve perpetrare la vendetta. Ed è tutto un brancicare di respiri e di passi trattenuti, con il protagonista sempre di spalle ed una ragazza cieca che incomincia a vedere… Per quanto assuefatti, non è facile riscontrare un così lungo momento cinematografico in grado di irrigidire i muscoli dello spettatore fino ad uno spasimo tanto partecipe, diviso fra l’immedesimazione fisica e il timore anticipato di quello che avverrà.
A partire da questo momento, un titolo a doppio senso che odorava di mafia diventa una storia di solitudini, di amore e di morte, mentre le scenografie e la colonna sonora sostituiscono la rarefazione delle parole. La tensione si allenta, e un po’ anche il talento registico, che ci consegna un’avventura fatta di nascondigli misero-borghesi, di scantinati putridi, di rare strisce di mare come speranze e come addii, di magazzini abbandonati che un tempo ricoveravano le illuminazioni ferroviarie e minerarie – e non a caso. I giochi di luce e di buio continuano, mentre il rumore metallico delle serrande, delle catene rose dalla ruggine, dei vetri sfranti e infetti scontorna una vicenda di clausura, di ribellione e di comunanza di destini. I caratteri vengono descritti come in un bassorilievo al contrario, che fa emergere i tumultuosi vuoti interiori mediante l’accumulo dei pieni al contorno, mentre un vento western di matrice leoniana sembra cancellare il passato e precipitare l’avventura verso il suo romantico – e forse un po’ scontato – epilogo.
Fabio Grassadonia e Antonio Piazza si sono aggiudicati a Cannes il Grand Prix e il Prix Révélation de La semaine de la critique, e alcuni recensori maligni potrebbero dire che hanno studiato in tal senso. In parte è vero, perché quelli bravi hanno spesso il vizio di indugiare sulla loro stessa bravura, perdendo un po’ di fiato lungo la strada; tuttavia questo è un film “d’arte” non calligrafico, tutto estroflesso e privo di ambiziosi o complessi sottintesi, in grado di giungere a qualsiasi spettatore per almeno tre motivi intrecciati: l’abilità nel rivelare mediante un’atmosfera impressionistica e pervasiva, costruita su un accumulo di dettagli tutti in sintonia e nella stessa nuance, senza generare assuefazione e sbagliare un passo; la riconoscibilità dei singoli componenti (dal miracolo, ai siparietti dei due coniugi della lavanderia, alla massa di figuranti criminali) sempre funzionalmente trasfigurati eppure comunque leggibili anche separatamente; l’accentuata complicità sonora nei confronti delle immagini, che vengono quindi doppiamente percepite, con un esito tra il veristico e il masterizzato, quasi a ribaltare la tematica della cecità.
La scelta e la scansione dei tempi, l’assortimento delle scenografie, la fotografia di Daniele Ciprì continuamente oscillante tra interni ed esterni (talvolta espressa in soggettiva per rappresentare il punto di vista dei protagonisti, talaltra a fungere da cornice al racconto) la dicono lunga sulla perizia e sulla profondità di preparazione dell’esordiente binomio registico. A cui va anche l’onore delle armi per la lunga pervicacia – cinque anni d’odissea – nel realizzare il progetto. Non sappiamo se con Salvo siano nati degli epigoni di Sorrentino o di Garrone con innesti di Crialese (forse manca qualche alzata di genio) ma certamente la prova non è solo di tutto rispetto, ma anche emotivamente avvincente, sull’onda nazional popolare di Arriverà dei Modà e sulla scorta della fisicità dei due protagonisti, che riempiono le pause di una narrazione forse suscettibile di qualche idea collaterale in più.
SALVO di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, Italia Francia 2012,durata 104 minuti