SACRO GRA
La definizione dei generi artistici inizia nell’antichità, così come antico è il concetto della loro contaminazione, che comunque ha subito un’enfatica e ormai quasi obbligatoria accelerazione in epoca moderna e post-moderna. Tuttavia, nella fattispecie filmica, e nonostante la definizione della FIAF (Féderation internationale des archives du film, che indica come opera cinematografica “ogni registrazione di immagini in movimento su qualsiasi supporto esistente”) si è fatta a lungo una netta distinzione ufficiale fra opere di finzione e documentari, al punto che solo quest’anno la Mostra di Venezia ha ammesso in concorso anche questi ultimi, premiandone immediatamente uno con il Leone d’oro, cioè proprio quello che stiamo recensendo.
Ora, qual è (o qual era) la differenza teorica fra un documentario e un film comunemente inteso? In genere il primo si distingue (o si distingueva) per l’immediatezza nel censire la realtà, così da sbiadire la figura dell’autore, come se nessuno potesse vantare la responsabilità del protocollo, e l’operatore fosse un mero manovratore di mezzi tecnologici, ad eliminare ogni forma di intermediazione. Nel contempo, cammin facendo, la prassi (e magari Michael Moore) hanno messo in evidenza che tanto un documentario quanto una pellicola di finzione possono essere sia certificazioni dell’esistente che opere creative, al punto che lo stesso documentario, in quanto testimonianza esplicita di un realismo dichiarato, può esercitare sullo spettatore una suggestione superiore a quella di un prodotto di mera fantasia.
E’ appunto il caso contraddittorio, ubiquo e ambiguo di Sacro GRA, esempio di metacontaminazione fra uno pseudo-documentario e un finto film, che si avvale fin dal titolo di un vero acronimo (Grande Raccordo Anulare) e al tempo stesso di un’allusione simbolica di forte impatto letterario. Nonché di un regista abile – Gianfranco Rosi – eppure di alterna inventiva proprio a partire dall’idea di utilizzare l’anello di asfalto che saturninamente accerchia Roma come sfondo fittizio non tanto di accadimenti, quanto di spunti esistenziali, senza attori e senza teatri di posa.
Ne scaturisce un lavoro certosino e vistosamente “firmato”, che ha selezionato chilometri di pellicola per appropriarsi di pezzi di vita, o meglio di persone, tenute insieme convenzionalmente da una tangenziale del tutto pretestuosa (seppur con una sua consolidata eco mitologica) e che tornano e ritornano all’interno della pellicola, come a voler accennare alla costruzione di un racconto o di una testimonianza che rimangono però virtuali. Si alternano così exempla di matrice felliniana-pasoliniana che rappresentano la parte più debole dell’operazione (le prostitute transessuali, le goffe cubiste di un bar scalcinato, le devote che scambiano un’eclisse per un miracolo) e spunti di autentica genialità investigativa, che viceversa sembrano richiamare sospese ispirazioni sorrentiniane: il pescatore di anguille, l’intellettuale decaduto con figlia nubile, l’esperto di palme e di parassiti delle medesime, il guappo proprietario di un surreale castello di magniloquente pacchianità, affittato per beceri fotoromanzi.
All’interno di questo secondo gruppo di “episodi”, una realtà pilotata al punto da apparire contraffatta individua ulteriori connessioni (quali il fotoromanzo che collega per simmetria artistica proprio il pescatore di anguille al proprietario del castello) dispiegando una panoplia di registri che vanno dal sordido all’ingenuo all’umoristico al grottesco, il cui fattore comune è la non riscattabilità di esistenze ripetitive, prigioniere di una trappola di ore inesorabili che fuggono asfittiche dalla speranza e dall’attesa.
C’è materiale per parecchie, mirabili riconfigurazioni di senso e di rotta, e molte convincenti modalità di esplorazione visiva che ricordano le figure in terracotta di Arturo Martini, affacciate sul nulla dall’interno di vuoti domestici, esattamente come gli abitanti anonimi di un palazzaccio, intenti a contemplare e commentare reiteratamente vicini e panorami che non si vedono mai. Però lo spettatore dapprima esita, poi ritiene di intravvedere il senso forzato dell’operazione, e infine guarda sbadigliando l’orologio, manipolato o deluso da un viavai sussultorio di coiti documental-narrativi interrotti proprio durante alcuni magnifiche opportunità reali e potenziali, fra le macchine in coda di un’agiografica romanità periferica, luogo obbligato e comune degli anni sessanta e settanta.
Perché se è vero che le distinzioni dei generi sono cadute, il cinema ha ancora in qualche modo l’obbligo di intrattenere, illustrando storie autentiche o inventate che compensino l’usura del quotidiano, visto che tutti obbediamo alle stesse regole genetiche entro infinite variabili: magari rendendo complice lo spettatore provocandolo, o facendolo riflettere, oppure ancora apprendere o evadere… la sola allusione ibridata non paga abbastanza, come sanno bene i bambini che prima di addormentarsi vorrebbero almeno conoscere gli sviluppi dell’ inquietante guerra ai grassi, voraci e chiacchieroni parassiti delle palme.
SACRO GRA di Gianfranco Rosi, Italia 2013, durata 93 minuti