PAURA DI PERDERSI
Prima è venuta Alice Munro con il suo racconto breve The bear came over the mountain , poi sceneggiato in proprio per la regista Sara Polley . Il film era Lontano da lei – 2006 – affidato alla bellezza assoluta di Julie Christie che con la sua totalizzante fisicità non solo era in grado di riempire i progressivi silenzi di una mente che si spegne , ma anche di infilarsi in quei tagli temporali che , come spazi bianchi , sono da sempre la caratteristica principale della scrittrice . Ne era sortita un’opera toccante , di una fermezza commossa intorno all’enigmatica cesura fra un prima e un dopo , con un accorto uso delle immagini , rianimate dall’intelligente e pervasivo utilizzo del flashback . Ora è la volta di Richard Gatzer e Wash Moreland che modellano Still Alice sul pallore ramato e minimalista di Julianne Moore .
Cinquantenne affascinante e sicura , moglie amata e madre di tre figli adulti , insegnante di linguistica e autrice di un trattato intitolato fatalmente Dai neuroni ai nomi , Alice è insediata con autorevole grazia nella sua vita piena , quasi una ricompensa alla perdita precoce della madre e della sorella . Finchè una serie di segnali insidiosi la porta ad un consulto clinico dall’esito devastante : Alzheimer su base genetica tanto raro quanto precoce . A partire da questo momento la scelta stilistica è opposta a quella dell’altro titolo , e i temporanei pieni come i vuoti dell’alienazione cerebrale avanzano lungo un percorso quasi didascalico nella sua totale linearità . Alimentati da occasioni strumentali che hanno lo scopo di generare l’effetto di quei filmati tanto diffusi su You tube , in cui gli anni si posano su una fisionomia alterandola in pochi secondi , i passi di Alice prima inciampano sulle parole , poi sull’omissione dei fatti , infine sulla riconoscibilità di luoghi , cose , persone . La lotta esplicita è inizialmente governata dalla paura e dalla sfida , poi volenterosamente supportata mediante piccoli espedienti tecnologici ,dal telefonino al pc , infine dichiarata reattivamente con una conferenza sul tema a favore di un’associazione benefica , e poi via via inghiottita da un abbandono in cui tutto ciò che prima era conosciuto e familiare assume i toni dell’estraneità . Intorno , una casa amata piena di oggetti , un marito dapprima incredulo e poi partecipe alleato , dei figli che , oltre a lottare per i loro problemi , sono messi di fronte anche all’accertamento dell’ereditarietà , con scelte differenti l’uno dall’altro .
La cinematografia non è certo nuova alla malattia , quasi sempre trattata come un momento o una condanna in grado di esaltare per differenza i valori del vivere , di colpo tanto più cogenti quanto più dati per scontati . Qui però il tipo di affezione è particolarmente insidioso , perchè si tratta di rendere lo stesso sentimento , ma con l’aggravio di dover rappresentare una mente che non sa più pensare , di modo che solo l’esteriorità può esplicitare una solitudine interiore non raccontabile . E in questo senso la regia è attenta , diligente , drammaturgicamente quasi infermieristica nel piazzare di fronte al personaggio e agli spettatori tutti gli ostacoli esemplari di un cammino struggente e distruggente , che deve prestare la voce ad una identità in sottrazione . Non ci sono momenti eccelsi , anche se si prova ad affidarne qualcuno all’ariosità di una vacanza marina ; forse quelli più rappresentativi vedono Alice sul divano di casa , mentre i famigliari sfocati parlano di lei in un angolo , per cui non solo l’amore assume le connotazioni di una cospirazione , ma addirittura senza ritegni , alla luce del sole , tanto il soggetto non è più in grado di comprendere ; oppure il dettaglio in cui non riconosce la badante , e questa le dà del tu , che è il modo affettuoso più diffuso per annullare involontariamente una personalità in declino .
Messi l’uno accanto all’altro i due film hanno dunque in comune il tema e la centralità di un’attrice indiscussa , ma differiscono radicalmente nelle modalità e nelle soluzioni . Il primo commuoveva di per sè , grazie al valore aggiunto della sua elaborazione artistica , questo opta invece per l’ esplicitazione clinica , come un manuale con figure che avverte e spiega quello che può accadere , non solo alla protagonista , ma implicitamente a chiunque . Punta pertanto sul coinvolgimento da immedesimazione personale , lasciando lo spettatore ad assumere su di sè il complemento delle emozioni . Scelta non banale per un film medio , seppur spettacolarmente non mediocre , che oggi vedeva una platea di anziani e anzianissimi – un target in continua espansione – attenta fino al terrore : tutti a fissare lo schermo interrogandosi nel contempo sui propri cedimenti , nonchè pronti ad ottemperare alle prove di memoria proposte , incamerando anche – non si sa mai – i palliativi terapeutici suggeriti .
Sono passati quasi dieci anni da Lontano da lei , la divulgazione scientifica ha reso inquietante l’allungamento della vita , ognuno ne sa di più per esperienza familiare o sociale , ben conscio che fra qualche anno magari qualcuno dei presenti non sarà risparmiato , quantunque già più anziano della appositamente ancor giovane e bella protagonista . E in qualche modo forse anche consapevole che il contagio emotivo in forma di levigata parabola è sì la vera forza dell’intrattenimento , ma anche il lato ancora in luce di una realtà possibile , molto più prossima al buio .
STILL ALICE di Richard Glatzer , USA 2014 , durata 99 minuti