IL RUMORE DEL TEMPO
Come ne L’ educazione sentimentale , l’intero non senso di un’esistenza si colora di un solo attimo significante : per Frédéric Moreau e per Flaubert , il breve calore di un bordello , per Sostakovic e per Barnes , il brindisi remoto con un mendicante senza gambe, lungo la banchina di una gelida stazione . Sintesi , in entrambi i casi , di una visione romantica della vita , che evita il nichilismo grazie all’afflato umano di un unico , anonimo scambio , nel solo punto in cui la tangente dell’altro incontra il cerchio del sè , svuotando tutto il resto di ogni possibile pienezza . E non importa che i personaggi di Flaubert siano una proiezione inventiva dell’autore , e quelli di Barnes appartengano viceversa ad un’interpretazione della Storia : la collocazione del punto di vista è comunque venata dalla medesima malinconica ironia , unico sostituto possibile alla disperazione non solo del fallimento , ma anche della sua sostanziale inutilità ( ” Immaginava che quel suo tratto avesse origine dove di solito si genera : vale a dire nel vuoto tra come immaginiamo o supponiamo o speriamo si risolva la nostra vita e come di fatto si risolve”) .
La letteratura si è a lungo occupata della musica e , per scorciare tediosi elenchi , bastino il Doctor Faustus di Thomas Mann , dove la storia del Terzo Reich intercetta la parabola di un artista pronto a vendersi al demonio , e Ravel di Echenoz , in cui il misterioso arabesco di un animo astenico si trasforma nella linea retta di un carattere . Qui rammentati per la sconcertante differenza nel trattare la medesima arte : il primo , con un’abbondanza tecnica e sonora da far invidia ad un musicologo ; il secondo con un’ asettica distanza , al punto che il martellante Bolero è solo una citazione nominale , essendo la scrittura il vero personaggio del libro .
Barnes li incrocia diversamente tutti e due , nella storicità del primo e nel mutismo musicale del secondo , tanto che poco o nulla sostanzialmente viene detto intorno alle opere del compositore . Quello che gli interessa è il caso esemplare relativo all’appartenenza dell’Arte , che non è del Potere , nè del popolo e nemmeno dell’autore , ma solo di se stessa , e quindi assolutamente libera ( “Se nei decenni a venire sarà abbastanza forte e pura e autentica da annegare il rumore del tempo , si trasformerà nel mormorio della storia” ) . Da cui l’ossessivo alternarsi dei diversi asservimenti perpetrati nei confronti di Sostakovic rispettivamente da Lenin – che trovava la musica deprimente – da Stalin – che era convinto di capirla e di saperla apprezzare – da Chruscev – che la disprezzava .” E cosa era peggio per un compositore ? Ci sono domande per le quali non esiste risposta . E comunque la domanda si dissolve quando chi la formula muore . Solo la fossa guarisce la gobba , amava ripetere Chrushev . Lui non era nato gobbo , ma forse lo era diventato moralmente , spiritualmente . Un gobbo assillato dalle domande . E forse la morte cura le domande insieme a chi le fa . Così che le tragedie , col senno di poi , sembrano farse .”
Invece , benchè venato da un disperato umorismo , tutto l’incalzante resoconto di successi e insuccessi pubblici e privati del protagonista rasenta la tragica claustrofobia di una prigione senza sbarre , in cui un uomo che non disdegna nè l’amore nè il bere vorrebbe solo dedicarsi in pace alla sua vocazione . La successione di diverse ragioni di stato riassumibili come dittatura dei soli nell’usurpato nome dei molti , trasforma un artista in un vacillante vigliacco senza possibilità di scelta ( ..essere un vigliacco non è facile . Molto più facile essere un eroe . A un eroe basta mostrarsi coraggioso per un istante…essere un vigliacco significa invece imbarcarsi in un’impresa che dura una vita “) .
Barnes è uno scrittore raffinato e incisivo sia nella differenza dei generi che nella disuguaglianza dei risultati : appartiene a quegli autori che inducono compulsivamente alla sottolineatura perchè ha il dono originale della sintesi illuminante . In questo angoscioso excursus storico le cui conseguenze ideologiche sono durate a lungo , riesce a inquadrare lapidariamente uno dei due grandi fenomeni politici del secolo breve . E lo fa giocando il gioco della vittima e del carnefice ( ” il lupo non conosce la paura dell’agnello ” ) scandito in tre grandi capitoli : Sul pianerottolo , Sull’aereo , In automobile , che incominciano tutti nello stesso modo :” Sapeva solo che quella era la volta peggiore “.
Con mirabile abbondanza di dettagli ora feroci , ora miserabili , ora grettamente melliflui , inquadra senza appello un periodo mettendolo in contrapposizione dialettica con l’immaginario diario intimo del protagonista , riportato in terza persona . Scelta inventiva esemplare , che genera un’assillante frizione drammaturgica , in cui sia il sopruso che la lusinga assumono lo stesso sapore e generano gli stessi echi minacciosi , densi di un’intensa eppur poetica pietas per lo storpiamento di una vita ( “Un’anima può essere distrutta in uno dei seguenti tre modi : attraverso ciò che ti fanno gli altri ; attraverso ciò che gli altri ti costringono a fare di te stesso ; e attraverso ciò che tu stesso decidi di farti . Ognuno di questi metodi è di per sè sufficiente ; certo , in presenza di tutti e tre , il risultato è impareggiabile ” ) . Che è anche la sintesi letteraria della tridimensionalità di questo avvincente , documentato e arbitrarissimo romanzo , intorno ad un’epoca che contemplò due sole categorie di musicisti veri , esclusi i fortunosamente espatriati, alla Stravinskij : quelli vivi e terrorizzati , e quelli morti . L’ultima domanda implicita , infine , non verte probabilmente sul come avrebbe reagito ognuno di noi , ma sul cosa avrebbe diversamente – e liberamente – potuto produrre e lasciarci un grande musicista .
Il libro
IL RUMORE DEL TEMPO di Julian Barnes , Einaudi 2016 , 191 pagine , 18,50 euro .
L’autore
Julian Barnes ( Leicester , 1946 ) si laurea in Lingue e letterature straniere all’Università di Oxford , collaborando inizialmente all’Oxford English Dictionary per poi abbracciare la carriera di critico letterario e cinematografico per il Times Literary Supplement , la New Rewiew e altre importanti testate . Nel 1981 pubblica il romanzo Metroland ( Premio Somerset – Maugham ) e il romanzo poliziesco Duffy ( primo di cinque ) tutti firmati con lo pseudonimo di Dan Cavanagh . A partire dal 1986 si dedica interamente alla letteratura . Pubblica Il pappagallo di Flaubert ( Premio Médicis Essai ) che vivamente raccomandiamo , cui fanno seguito Guardando il sole ( 1989 ) Una storia del mondo in dieci capitoli e 1/2 ( 1989 ) Il porcospino ( 1993 ) Oltremanica ( 1997 ) England England ( 2000 ) Amore , dieci anni dopo ( 2007 ) Arthur e George ( 2007 ) Il senso di una fine ( 2012) Livelli di vita ( 2013) . Tre volte finalista al Booker Prize , l’ha vinto nel 2012 con Il senso di una fine , che vivamente torniamo a raccomandare .
La citazione
“Nessuno se ne va al momento giusto . Musorgskij, Puskin, Lermontov : tutti e tre morti troppo presto . Caikovskij , Rossini , Gogol , e fors’anche Beethoven , morti al contrario troppo tardi . Non si trattava naturalmente di un problema che riguardasse solo scrittori celebri e compositori , ma anche i comuni mortali : il guaio di sopravvivere al proprio tempo migliore , di raggiungere un punto della vita che non può più procurare nessuna gioia, ma solo delusioni ed eventi catastrofici .
Dunque , a lui era toccato vivere abbastanza da sconcertare se stesso . Capitava di frequente agli artisti di soccombere alla vanagloria , finendo col pensarsi più grandi di quanto non sia vero , oppure alla delusione . Negli ultimi tempi , lui era incline a reputarsi un compositore scialbo , mediocre . L’insicurezza del giovane è niente in confronto a quella del vecchio . Ed era questo , forse , il loro trionfo definitivo su di lui . Anzichè ucciderlo , gli avevano concesso di vivere e , così facendo , erano riusciti ad ucciderlo . Eccola , l’estrema irrefutabile ironia della sua vita : che lo avessero ucciso , permettendogli di vivere .”