GIALLI ESTIVI : FORSE SI’- ANCHE NO
Il gelato non è da tempo un prodotto solo stagionale , eppure , come il il libro giallo , si vende ovviamente di più durante l’estate . L’editoria ne è consapevole e , al solstizio di giugno , non si lascia certo trovare impreparata , con manufatti sia nobilmente artigianali che truccati al gusto Puffo . Tra i tanti , ne proponiamo cinque fra i più chiacchierati , in ordine di lettura e dopo parecchie censure ( ad esempio, La Vedova di Fiona Barton ) : il primo per maschi materni , il secondo per donne romanticamente all’antica , il terzo per tutti gli intenditori , il quarto per i nostalgici della grande canzone napoletana , il quinto per i letterati intimisti . Quasi tutti romanzi accomunati non solo dal genere , bensì dall’ibridazione del genere con altri generi , dallo storico scientifico , al cultural pittorico canoro , al social politico documentaristico . Buona lettura e buone vacanze .
LA SOSTANZA DEL MALE di Luca D’Andrea , Einaudi 2016 , 452 pagine , 18,50 euro
Non foss’altro per l’imperversare della scuola scandinava , i thriller brinati dal gelo cominciano ad essere sovrabbondanti . Ma mentre L’ultimo lappone era concepito con mano giornalistica sicura almeno nei caratteri e nei paesaggi , anche se meno nell’intrigo , la prima fatica dell’esordiente Luca D’Andrea s’apparenta meglio al recente film di Claudio Noce La foresta di ghiaccio , riportandoci ai confini nordici di un’Italia poco nota , con velleità pseudo sociologiche e pseudo scientifiche , ad adombrare una comunità montana aperta al turismo ma ripiegata sui propri riti e miti , nonchè gelosa di una minacciata identità . Attualità internazionale e folklore alpino , dunque : la prima impersonata da un improbabile sceneggiatore americano , piovuto per ascendenti familiari e per amore in quel di Siebenhoch ; il secondo scandagliato attraverso la retorica di una montagna maledetta , con tanto di Krampus al contorno come nell’omonimo film del 2015 . Un percorso tradizionalissimo che si avventura per contorsioni successive lungo troppi tornanti sopra e sotto terra , innescato e protratto dal contrasto fra l’illusione edenica del luogo e la sostanza altrettanto edulcorata ma altrettanto insidiosa degli affetti familiari ( un nonno, una bella moglie giovane , una figlia bambina ) . Con un protagonista compulsivo , debole e disturbato quando si tratta di dettagliare gli snodi , ma forte e lucido quando bisogna battere la gran cassa degli orrori naturali e delle ossessioni private . Che , ahimè , sono talmente ripetitive da confondere sogni e oggettività , fotografia e cartapesta , nonostante il presunto realismo dell’ambientazione . Anche se l’autore non è uno sprovveduto in materia di scrittura , alla fine si arriva stanchi e fiaccati dalla noia , perchè l’incentivo ad andare avanti non è dettato dalla curiosità intorno all’epilogo , quanto sul come se la caverà l’impegnatissimo e infaticabile esordiente , dopo tanti accumuli , non solo di neve . Rimangono la certezza che ci riproverà nuovamente in quanto comunque dotato o predisposto , e il dispiacere per una malizia commerciale che macina spunti originali insieme a tanti rigurgiti di reminiscenze letterarie e filmiche perfin troppo trasparenti e insistite . Non ci si affeziona a dei personaggi stereotipati , malgrado l’ emotività dei dialoghi , nè ci si appassiona agli interrogativi seminati da un demiurgo sapiente contaminato da un apprendista ingenuo che , al pari della natura che descrive , una volta sciolta l’abbacinazione della neve , lascia deiezioni deludenti e sempre uguali : incubi , nausee , sangue , vomiti , sbornie , agnizioni , interni familiari ed esterni apocalittici , in cui il mostruoso naturale ed umano è più un martellamento di parole che un incalzare inquietante di atmosfere e di dubbi : scrivere ripetutamente che paura , che freddo , che raccapriccio non genera brividi di nessun tipo . Peccato , bisognava limare molto perchè l’iteratività delle diluizioni qui non funziona , anche se il successo sarà magari assicurato dal solito strombazzatissimo evento mondiale : sempre più la frutta estiva è lucida e tornita all’esterno , e dentro appena organoletticamente passabile .
NINFEE NERE di Michel Bussi , E/O 2016 , 394 pagine , 16 euro
In Natura morta in riva al mare , del connazionale Jean Luc Bannalec , l’ambientazione gialla riguardava Pont – Aven e gli artisti che a lungo frequentarono la Bretagna al seguito di Paul Gauguin , dando luogo al cenacolo dei Nabis . In Ninfee nere ci si sposta viceversa a Giverny , nell’alta Normandia , dove per oltre quarant’anni anni soggiornò Paul Monet , dipingendo ossessivamente i fiori del suo celebre stagno , fino alla cecità . Della sua leggendaria presenza rimane la celebre casa , ora omonima Fondazione , un misterioso lascito , il giardino frequentato dai turisti e dagli appassionati di pittura , intorno a cui ruotano i pochi abitanti di un villaggio dove tutti sanno tutto di tutti . Bussi , pluripremiato e osannato oltralpe , confonde le acque intorno all’Epte e alla Senna , facendo annegare un celebre oculista diversamente connesso a tre affascinanti presenze femminili : una cattiva , una bugiarda ed una egoista , da cui , come un lungo gioco di specchi , promana un intrigo che tratta l’infanzia , la giovinezza e la vecchiaia come un unico impasto di passioni , di vendette e di interessi . Difficile distinguere il movente che si preciserà , solo alla fine , come un intelligente gioco d’artificio , senza tuttavia deludere grazie all’ingegnosità di alcuni stratagemmi : quello temporale e nominalistico della trama , quello della documentazione storica e pittorica trattata con convincente e mai pedante dovizia di particolari , quello dei personaggi ( e degli animali ) di fantasia , compreso l’immancabile commissario forestiero nella duplice veste di investigatore e di innamorato . Inutile dire che la scrittura è appropriata alla bisogna , rendendosi un po’ desuatamente poetica per adattarsi alla fascinazione pittorica degli interni e degli esterni , con qualche tratto alto e molte sottolineature pseudo romantiche che sembrano addirittura affondare nei libri per vecchie giovinette di Delly , antesignano dei romanzi rosa . Che lo si legga nell’ottica di un genere o dell’altro , il tempo che si perde lungo alcuni invenzioni un po’ legnose lo si riguadagna grazie a particolari non sempre noti , tesi a conferire al tutto una patente di nobiltà popolare , mentre resta il rimpianto di un prodotto anticato che si poteva rifinire meglio , senza tagliarlo come La sostanza del male , ma raffinandolo ulteriormente proprio nei manierismi da docufiction , che a tratti sono un punto di debolezza , a tratti un punto di forza .
YERULDELGGER .MORTE NELLA STEPPA di Ian Manook , Fazi 2016 , 524 pagine , 16,50 euro
In fondo , la trama è un incastro abbastanza semplice di due casi diversi riconducibili ad un unico obiettivo . Eppure genera un senso di inquietante sovrabbondanza grazie alle interruzioni e agli sfiati escogitati dalla plastica e documentata fantasia dell’autore , che punta sulla scomposizione di una verità tanto semplice quanto sorprendente : se i nostri contemporanei mongoli niente sanno dell’Olocausto perchè la storia degli ebrei non gli appartiene , altrettanto poco conosciamo noi del loro passato cruento , con il massacro di migliaia di monaci , la distruzione dei relativi templi , il divieto della lingua madre . Siamo al confine degli ottanta milioni di morti di Stalin e delle centinaia di milioni di morti di Mao , con una Cina che cerca di farla da padrone nei confronti di un popolo fieramente discendente da Gengis Khan , eppure ridotto a campare miseramente di un turismo d’accatto . Con gli appetiti dei grandi poteri internazionali che tentano di giocarsi ai dadi le ricchezze di un sottosuolo mascherato in superficie da sabbie livide e venti ghiacciati . Nel momento in cui le credenze mistico naturistiche del paese cominciano a corrompersi , il poliziotto Yeruldegger paga il suo tributo di superomistica incorruttibilità sia alla Storia pubblica che a quella privata , ponendosi al centro di un intrigo che lo vede vittima designata e giustiziere immortale . Manook ( giornalista , scrittore e grande viaggiatore francese ) è molto bravo nell’alternare usi ancestrali e modernità importate , esotismi naturali e spiritualità di un Oriente mortificato da un occidente vieppiù desiderante , esagitazioni fumettistiche e panorami incontaminati , crudeltà sadiche e delicati sentimenti familiari, yurte candide e visceri di marmotta , the al burro salato e copricapi antichi , lungo esagitate avventure di sangue e di spirito che sono nel contempo Bignami storico-politico , giro turistico e thriller intrigante . Con personaggi empatici e maestosi catastrofismi in cui sembra di scorgere l’eco della fantasia eminentemente cinematografica di un Dumas orientaleggiante , che oppone ossimoricamente violenza e contemplazione grazie ad una scrittura acribica e allucinatoria in cui il trucco della contaminazione culturale c’è , si vede e va bene così . Perchè sino alla fine si è comunque obbligati a stare ad un divertimento serio , realistico e insieme surreale , che declina il potere di un bene e di un male di genere sbalzando continuamente il lettore dagli interstizi claustrofobici delle fogne di Ulan Bator agli sperdimenti spaziali di cieli stellati e pianure innevate , mentre innominati spiriti spiano da dietro impressionistici alberi blu , i coltelli sibilano, le pallottole fischiano , i pugni stordiscono e le albe immemori cantano il sole di sempre . A’ suivre …
SERENATA SENZA NOME di Maurizio De Giovanni , Einaudi 2016 , 374 pagine , 19 euro
Anime di vetro –Forse sì-anche no 3 – era percorso da Palomma ‘e notte ( Di Giacomo – Bongiovanni ) , mentre Serenata senza nome è un omaggio alla disperazione che ancora spera di Voce’e notte ( Nicolardi – De Curtis ) . Il malinconico , arguto De Giovanni , maestro di una Napoli seppiata in odore di fascismo , canticchia da sempre nei suoi libri intitolati al commissario Ricciardi…Ma prima lo faceva in sordina , fra un morto ammazzato e l’altro , dedicando la sua attenzione alle stagioni che di volta in volta arricchivano di sfumature un’atmosfera partenopea nota , eppure con un suo fascino originale . Invece , nei due ultimi libri , il plot sembra addirittura costruito intorno alle melodie citate , con tanto di estrapolazioni autonome all’interno del racconto . Che offre il solito privilegio dell’iteratività tipica della serie d’élite : i pochi riuscitissimi personaggi ricorrenti , i botta e risposta puntuti mescolati ad un romanticismo via via più estenuato in cui l’amore è l’unico contrappunto della morte , lo stile elegante che sembra sempre più dissanguarsi nel gusto della bella frase volutamente rétro . Con istanze sociali meno perentorie di quelle di Camilleri , e che tuttavia parlano in filigrana di un tempo passato ancora attuale . A differenza di molti altri giallisti che asservono il fraseggio e la sua organizzazione alla trama , l’autore sembra progressivamente scivolare nell’operazione contraria , scrivendo come si canta , soprattutto per il gusto di sentire riecheggiare la particolarità del proprio timbro sonoro . Non che la vicenda del pugile Vinnie , emigrato per ripresentarsi alla sua prima e unica donna , sia priva di interesse o deludente nei suoi risvolti , anzi , è condotta funzionalmente lungo abili tagli temporali . E’ che se le storie si muovono all’interno di un contesto dato , troppo stancamente ripetitive risultano le vicende personali delle individualità fisse , che viceversa sarebbe bene si dessero una mossa . Montalban e Camilleri hanno ovviato all’inconveniente facendo invecchiare i loro protagonisti , mentre gli occhi verdi del commissario Ricciardi continuano ad avere gli stessi trent’anni senza decidersi : non amano per amare , ma per soffrire . Si continua a leggere volentieri quanto già si conosce , si scava nelle preziosità anche colte , ma sembra di notare un’involuzione divisiva fra il piacere di prolungare una frequentazione sicura e la leggera insofferenza nei confronti di un’ispirazione che , per scongiurare la formula , non la innova , ma la riproduce esasperando il preziosismo verbale . Che molto spesso risulta fine a se stesso o comunque autoportante rispetto al cliché dato . Forse , botteghino permettendo , sarebbe opportuna una pausa per ripartire in seguito con uno slancio nuovo . Magari anche solo per tornare alla maggiore spontaneità dell’ispirazione precedente , quando un meritato successo era ancora da conquistare e non solo da gestire , seppur con signorile perizia .
TRE GIORNI E UNA VITA di Pierre Lemaitre , Mondadori 2016 , 226 pagine , 18 euro
Questo è un libro letto non tanto in omaggio a quel sorprendente romanzo che è Arrivederci lassù , raro esempio autoriale di passaggio da una letteratura di genere ad una alta senza aggettivazioni , bensì per ricordare che Pierre Lemaitre ha anche firmato Cadres noirs , uno dei migliori thriller degli ultimi decenni , purtroppo inspiegabilmente mai tradotto in Italia . Anche se parla con grande originalità e rara competenza della disoccupazione impiegatizia , con tanto di multinazionali blasonate dell’head hunting e del collocamento , anticipando e incrociando le atmosfere di due film diversamente esemplari : La legge del mercato e Margin call . Viceversa Tre giorni e una vita costeggia un Simenon provinciale ed intimista raccontando una storia che non ha niente a che fare con un noir , un thriller od un polar , e tuttavia si pone come un romanzo di genere per via della suspense che cerca di creare intorno all’omicidio involontario di un bambino , compiuto per mano di un altro bambino appena più grande . Ai fatti il lettore assiste in diretta e quindi l’enigma ruota lungo la scoperta di un assassinio , alternativamente remota o vicinissima . Scandito in tre differenti parti temporali , di cui la prima è la meno brillante , ronza insistentemente su varie domande implicite : come si riesce a traghettare se stessi dalla prima adolescenza alla giovinezza compiuta , sentendosi un banale mostro che può avere più o meno fortuna in base all’arbitrarietà del caso ? Temendo dapprima il carcere e poi solo il rumore mediatico ? All’interno di una piccola comunità francese sempre uguale a se stessa , nonostante i tigli siano stati sostituiti dalla plastica , resistendo però le carte da parati e le crétonnes a fiori ? E sentendo il peso della fine non nel delitto compiuto a dodici anni , quanto nel coito maldestro che seppellisce per sempre l’immagine di una ragazzina bionda a lungo desiderata , e sfociata poi in una banale bellissima di paese dal risolino idiota ? Ibridazione a tratti ispirata , a tratti piatta e ripetitiva quando non maldestra , il romanzo prende quota verso la fine e si fa perdonare in virtù non tanti dei pieni , quanto dei piccoli vuoti che riesce a creare : un dente mancante , il buco di una fossa , una cornice vuota , la sottrazione di un orologio , il senso di colpa contrastato dall’istinto di sopravvivenza e poi pagato con la rinuncia a tutto quanto si spera di costruire . Dolore e dimenticanza , spleen e ripetitività , esistenze che si restringono intorno alla banalità di rituali sociali consacrati , mentre i piccoli rabbocchi di vita autentica vanno occultati a prezzo di qualsiasi recita … intanto i media imperversano per far sentire gli spettatori meravigliosamente normali . Troppi spunti portati avanti in modo diseguale , all’interno di una costruzione a tavolino che rincorre l’ispirazione letteraria per nobilitarla , tra notazioni convincenti e déjà vu un po’ stanchi . Peccato , perchè la memoria corre ben diversamente al primo , bellissimo e quasi mai citato romanzo di Carrère , L’école de neige – La settimana bianca . Tuttavia si arriva alla fine aspettando comunque pagina dopo pagina il colpo di scena risolutivo .
VELE IN LAGUNA , Guglielmo Ciardi , 1880