SESTO BOUQUET
UN GIOCO E UN PASSATEMPO di James Salter , Guanda 2015 , 256 pagine, 16 euro
Che James Salter sia un grande scrittore lo testimoniano libri come Tutto quel che è la vita e Una perfetta felicità ( Si è fatto tardi ) . E con l’abusato aggettivo grande s’intende non solo una raffinatezza espressiva oggi relegata nella soffitta dei vecchiumi per ormai raggiunta incapacità emulativa , ma anche l’armoniosa compenetrazione tra storie , personaggi , ambienti , riflessioni individuali e sociali . Ne è testimone il titolo in questione , già variamente pubblicato in Italia e oggi riproposto sulla scorta di insondabili criteri editoriali , che spesso osano – male – solo in funzione delle risposte immediate del mercato .Terzo libro dell’autore , Un gioco e un passatempo – 1967 – risente molto del periodo in cui è stato scritto tanto da risultare sommessamente datato nel gioco di specchi , nelle nebbie provinciali contrapposte ai luminosi bui mondani della Parigi che crede di contare , nei dialoghi post esistenzialisti con un tocco cinematografico da Nouvelle vague …Trasposizione aggiornata dei mitologici trapianti americani in Europa , da Henry James a Gertrud Stein , il libro si avvale di un’invenzione voyeuristica di pregio : un indeterminato narratore statunitense di trentacinque anni lascia la capitale francese per istallarsi ad Autun , in preda ad un non meglio precisato spleen esistenziale . Ma non parla di sè , bensì della passione di una giovane coppia mista , lui invidiabile James Dean con tutti i crismi dei votati ad un’eterna gioventù di indeterminatezze come di improvvisazioni , lei prosaica commessa autoctona con un carattere indecifrabile dentro un corpo fatto per l’amore . Attratto da lei , e forse anche da lui , l’ignoto non spia tecnicamente i due , ma li frequenta sporadicamente immaginandone tutte le evoluzioni psicologiche e fisiche , secondo un bisogno di possesso costretto a farsi intermediazione per palese incapacità di vivere . Peccato che , sotto il profilo strutturale , la trovata dell’interposta persona funzioni soltanto a tratti , come in quei giochi enigmistici in cui il meccanismo finisce per rovinare il mistero stesso intorno a cui e per cui è stato ordito . Scacco triplice ad una esistenza concepita appunto – da una citazione del Corano – solo come “un gioco ed un passatempo” , il libro non si avvale di quella luce continua che viceversa illustra ogni momento , anche il più recondito, delle altre traduzioni , cui rimandiamo per appropriarsi di un autore esaltante , recentemente scomparso all’età di 90 anni . Rimangono momenti antologici ineffabili , le cui suture erotico – romantiche inficiano però la compattezza nitida e esemplare di un classico proiettato sul trinomio giovinezza amore morte , qui inconsapevolmente intrappolato proprio da quella stessa epoca che si propone di rendere emblematica . Risulta tuttavia interessante notare la mutazione di una moderna categoria dello spirito , dagli anni sessanta ai giorni attuali : l’eterna ricerca del principio di piacere sembra svuotarsi progressivamente di ogni interrogativo problematico per ridursi ad una meccanicistica e iterativa evasione da ogni intralcio del reale .
ENVOYEE SPECIALE di Jean Echenoz , Les editions de minuit 2016 , 320 pagine , 18,50 euro
Molti autori di rango disdegnano i romanzi di genere , mentre altri se ne nutrono e vi si accostano come ad una sorta di intervallo ludico che è nel contempo sia invenzione di un dispositivo sfidante , sia contaminazione di differenti registri . E’ quanto si propone Jean Echenoz dopo la descrizione di un passato invaso da figure definitive come Ravel , Zatopek ( Correre ) Tesla ( Lampi ) e 14 , dedicato non ad un personaggio , bensì alla prima guerra mondiale colta in un breve momento , dall’interno e dal basso , ossia ad ” altezza d’uomo “. Con Evoyée spéciale si ritorna invece alla contemporaneità di una Parigi perimetrata dalle linee del metro – quasi un aggiornamento di Modiano – sino a quella Corea del nord di cui tanto si parla a vanvera , mischiando i commenti sui capelli del dittatore con quelli relativi alla bomba all’idrogeno . I luoghi della capitale stabiliscono da subito una sorta di enclave privilegiata , al cui interno si dibattono sconosciuti inconsapevoli dei loro reciproci legami . Al centro , il rapimento di una donna talmente fatalista da adattarsi a tutto , esempio sublimato di una non volontà a cui gli altri si adeguano , pur pensando erroneamente di essere liberi . Ma che non lo siano lo esemplifica fin dall’inizio una scena in bianco e nero , in cui la silhouette di un vecchio generale in disarmo ci dice che l’autore gioca con le sue pedine lungo una scacchiera che si disloca paradossalmente , per generare trasalimenti frizioni buchi neri . L’intenzione demiurgica di Echenoz avvicina e allontana di continuo i suoi pezzi umili , mentre quelli di pregio non sono a loro volta che un’illusione al servizio di un impegno che è sia pretesto di ricerca che analisi di un potere formale che nulla può nella sostanza , soprattutto rispetto all’insondabilità del destino .
Sembra di essere dalle parti di un Maugham interventista ancora più smagato e ironico , che crede ai dettagli di quanto sta inventando , e ha fede solo nell’espressione letteraria che ne deriva . Che in effetti è la parte preziosa del libro : leggera , ironica , sofisticata , riflessiva , avventurosa , innamorata di luoghi e ambientazioni ben più verosimili delle persone . Tutti hanno dei segreti , e di piega in piega l’autore fatica , scompare , riappare raccontandoci altresì una sua idea del mondo , ma senza darlo a vedere . Tutto quello che scrive dovrebbe essere messo da parte per tempi di carestia . Però c’è un’obiezione di fondo , che spesso si riscontra nei grandi letterati che tentano di accostarsi ad un genere . La trama , che ne è sempre l’elemento portante , non è quasi mai il loro forte , rimanendo un pretesto , mentre per i professionisti dei noir , dei polizieschi , delle spy story è viceversa tutto , ossia il punto di partenza come il punto di arrivo . Qualche cosa dunque non funziona sino in fondo e , se la godibilità dell’intelligenza e della scrittura rimane costante , il giudizio sull’organizzazione strutturale non può essere messo fra parentesi . Qui il voto si abbassa , perchè le progressive confluenze centripete non sempre funzionano , e le forzature affiorano inesorabili , soprattutto – e non potrebbe essere diversamente – a partire dalla metà del libro , quando le premesse del teorema esigono una consequenzialità credibile . Allora si pensa o all’eccezione di Simenon , o ad un meticciato creativo che , per esempio , innesti la singolarissima trama di Cadres noir con le capacità affabulatorie del Nostro . E forse non sarà un caso che Pierre Lemaitre abbia percorso la strada contraria : dal romanzo pregiato , ma pur sempre di genere , a quel grande romanzo letterario ( Arrivederci lassù ) che gli è giustamente valso il Goncourt del 2013 .
CRUCIFERA E FIORI A SPIRALE – 1925 – di Paul Klee