RIDERE DI MALINCONIA
Ecco un film beckettiano concepito per non essere un film , a dimostrazione che il cinema può diventare tutto , anche il contrario di se stesso , eppure intrattenere ugualmente violando i propri canoni consolidati . In questo caso attraverso l’esaltazione degli elementi di supporto e contorno delle pellicole cosiddette classiche , sostituendo alla trama un’idea , un’empatia o un punto di vista , consustanziati da una scenografia , una fotografia e una colonna sonora che ne sono protagonisti al pari degli attori . Quello che si presenta agli occhi dello spettatore è quindi un percorso dentro una galleria d’arte che ha per tema dominante la malinconia del vivere , venata da un senso particolare del ridicolo che la inchioda ad un compendio di ripetitive assurdità .
Si inizia con tre casi di morte improvvisa , uno silente e nemmeno percepito , gli altri emblematici di un disturbo della continuità di atti individuali e collettivi sempre uguali , in cui il soggetto cessa di esistere solo perchè gli altri possano continuare , fruendo eventualmente di quel poco che ne resta . Si prosegue con situazioni via via sempre sempre più alienanti nella loro smarrita prosaicità , che toccano l’idiozia del potere , la ciclicità senza evoluzione della storia collettiva e dei ricordi privati , il problema del denaro , le tentazioni del sesso , le cogenze dell’indifferenza e quindi della solitudine . A far da lasco collante una patetica coppia di piazzisti dell’intrattenimento , con una commovente valigia di tre soli articoli : i denti da vampiro con canini taglia XL , la maschera di gomma dello zio Dentone , il dispositivo della risata meccanica . Eppure l’attenzione permane tesa , nutrita da due modalità drammaturgiche ambivalenti : un umorismo stralunato basato su quella prevedibilità che scatena il riso prima ancora che l’effetto si verifichi , accompagnata nel contempo da un senso contraddittorio dell’attesa perchè non si sa di volta in volta che cosa potrà succedere ; la quasi pruriginosa consapevolezza di commettere un’appropriazione indebita carpendo l’intimità altrui , unita però alla presunzione di alterità o di distanza da situazioni che viceversa parlano della nostra comune condizione bipede .
La centralità della scenografia è suddivisa non tanto in quadri , quanto in sezioni di scatole minimaliste rese più nitide e profonde dalla tecnologia digitale , sempre corredate da aperture di entrata come di fuga e sempre illuminate da un verdino da spinacio candeggiato , senza significative differenziazioni fra gli interni e gli esterni . Le suggestioni pittoriche sono continue e passano per le immobilità stuporose di un Hopper dissanguato agli inneschi militareschi di un Rembrand o di un Goya ; dagli accenni arredatori di un Hokney proletario alle porte o finestre socchiuse di un Hammershoi senza romanticismi , fino al realismo deforme di Otto Dix e di Georg Sholtz , mentre le anonime figure attoriali , quasi sempre grasse , vecchie , zoppe o con le ginocchia valghe sembrano bendate e attonite come le sculture di George Segal . La colonna sonora è poi un montaggio nel montaggio , e insiste , riprende e si diluisce in un commento saltellante di sardonica orecchiabilità , così come il tormentone di formalità indifferente che trascorre ironico lungo tutto il film : “siamo contenti di sapere che state bene” .
A settantadue anni il regista svedese Roy Andersson porta a termine la trilogia iniziata nel 2000 con Canzoni del secondo piano e proseguita nel 2007 con You , the living dopo venticinque anni dedicati prevalentemente alla realizzazione di spot pubblicitari , mestiere di cui conserva più di un eco in termini di incisività e di inventiva ; la sintesi complessiva invece latita e verso la fine ci si ritrova sazi per eccesso di vuoti , di richiami , di sottintesi e anche di ripetizioni , mentre il tono si fa più drammatico e meno umoristico . Ma è una sazietà paragonabile alle pienezze stolide del quotidiano , quando si presenta la tentazione di dare qualche calcio ai disturbi veniali della vita . Questo viceversa è un film che regala momenti entusiasmanti purchè non si pretenda la tradizione . E se si presenta come una pellicola probabilmente ostica per il grande pubblico non è tanto in funzione della cultura che la pervade : è infatti ininfluente riconoscere o meno nella figura a cavallo il Re Carlo XII di Svezia . Il punto vero è nel saper guardare , in generale e nello specifico , con inerme partecipazione : basterebbe la scena iniziale del vecchio che si sofferma a osservare le teche degli uccelli mentre la moglie disinteressata freme di appena trattenuta impazienza sullo sfondo , per comprendere come anche il sollevamento di una saracinesca possa costituire una rivelazione , in un qualsiasi mercoledì di una settimana qualsiasi .
UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA di Roy Andersson , Leone d’oro alla mostra cinematografica di Venezia 2014 , Svezia 2014 , durata 100 minuti